lunedì 29 agosto 2011

DiCinema: la nuova Hollywood


Un viaggio nello star system mondiale, per conoscere gli attori e i registi che hanno rinnovato l’ultima generazione di miti in celluloide

La travolgente sensualità mediterranea scoperta dal poliedrico Almodovar, nelle doti di stimabile artista nel talento di Antonio Banderas.

Il vouierismo maschile ha sempre imposto, come “segno di riconoscimento”, quei valori dati da una sobrietà di stile e genere cinematografico applicabili a chi, nel nome di quella maschilità di provato “sciupafemmine”, ne ha sempre fatto buon uso e ricavato non meno di taciti consensi nel vasto pubblico femminile. Rispolverando una generazione hollywoodiana che attinge in quell’arco di tempo che annovera nomi del calibro di Tyrone Power e Clarck Gable, oggi possiamo riflettere una vasta pletora di nomi che hanno rilanciato e mantenuto (nel bene e nel male) il clichè voluto dal virilismo d’elite. Antonio Banderas, supportato dai natali DOC, è indubbiamente un araldo di tutto rispetto nella nuova casta di “machi” d’esportazione che hanno saputo imporre il proprio talento uscendo dalla “ristretta” cerchia nazionalpopolare. Battezzato dal regista pop Pedro Almodòvar, autentico pigmalione di numerosi nuovi talenti femminili (da Carmen Maura a Maria Barranco), lo stesso esordio ribadisce un sodalizio di tutto rispetto con il regista ispanico, passando quindi da Labirinto di Passioni a Matador (precursore del Basic instinct di Paul Verhoeven), intercalati da pellicole uscite nel circuito nazionale spagnolo che hanno preparato il rilancio di un vero e proprio fenomeno cult postmoderno nel Donne sull’orlo di una crisi di nervi. Per rivalutare il lancio dell’attore nel panorama hollywoodiano dobbiamo passare dal fim documentario A letto con Madonna per arrivare a I Re del Mambo (The Mambo Kings) diretto da Arne Glimcher, in coppia con Armand Assante, con il pregio di autentico debutto nelle doti artistiche di vero musicista, riproposte nel più recente Desperado di Robert Rodriguez (di nota l’incursione in veste d’attore di Quentin Tarantino, non ultima con lo stesso regista). Da qui, l’ascesa di Banderas come vero astro da protagonista, passando da La Casa degli Spiriti (coproduzione tedesca/danese/portoghese) diretto da Bille August e tratto dall’omonimo romanzo di Isabel Allende (Jeremy Irons, Meryl Streep e Winona Ryder tra i protagonisti) per approdare al successo firmato Jonathan Demme, Philadelphia, coprotagonista assieme al premio Oscar Tom Hanks, successo abilmente prefabbricato sul fenomeno dell’AIDS, rivestito da una sofisticata commercializzazione stereotipata sul tema dell’omosessualità (ciliegina sulla torta la hit di Bruce Springsteen, secondo Oscar del film come migliore canzone). Le successive prove diventano successi riconfermando D’Amore e ombra (regia di Betty Kaplan sul romanzo di Isabel Allende) e Intervista col vampiro di Neil Jordan (Crousie e Pitt protagonisti di una rivisitazione barocca del culto del Nosferatu) la consacrazione di un affidabile interprete a cui rivolgere attenzioni sempre maggiori. Incursioni nella felice commedia hollywoodiana riportano Banderas ai fasti degli esordi, “sfarzosamente” rivestiti dal regista Fernando Trueba, affidandosi ad un cast “all in USA” , nel suo Two much – Uno di troppo, tra cui spiccano Melanie Griffith (set galeotto tra i due, dalla cui unione nasce la figlia Stella del Carmen), Daryl Hannah, Joan Cusack e Danny Aiello a compendio di una godibile e saporita commedia senza difetti. Il ruolo di un visionario ribelle di nome Che Guevara nell’opera rock Evita diretta da Alan Parker (ultimo musical “ufficiale”, dopo Jesus Christ superstar, Rocky horror picture show e The Wall), al fianco di Madonna nel ruolo di Evita Peron, e il ruolo della volpe ne La maschera di Zorro di Martin Campbell consacrano definitivamente Banderas come vera star di un cinema che sa riproporre rilanci e riconferme affidate al vero talento e al puro piacere di un cinema consacrato alla tradizione. Da citare, infine, le riprese della saga “made in mexico” firmata da Robert Rodriguez nel C’era una volta in Messico (Johnny Depp e Salma Heyek a saldo dei precedenti Desperado e El Mariachi) e il sequel La leggenda di Zorro, sempre al fianco di Catherine Zeta-Jones, nonchè le felici prove di doppiaggio nella saga firmata DreamWorks dell’Orco verde Shrek, nel ruolo del Gatto con gli stivali.

Di seguito, tutti i film interpretati dall’attore:

Labirinto di passioni (1982), Pestañas postizas (1982), Y del seguro... líbranos señor! (1983), Il signor Galindez (El Señor Galíndez) (1983), El caso Almería (1983), I trampoli (Los Zancos) (1984), Requiem per un contadino spagnolo (Réquiem por un campesino español) (1985), La corte del faraone (La corte de Faraón) (1985), Matador (1986), 27 horas (1986), The puzzle (1986), Deliri d'amore (Delirios de amor) (1986), Così come erano stati - Trio (Así como habían sido) (1986), La legge del desiderio (La ley del deseo) (1987), Il piacere di uccidere (El placer de matar) (1987), Donne sull'orlo di una crisi di nervi 1988, La mujer de tu vida: la mujer feliz (film tv) 1988, Intrighi e piaceri a Baton Rouge 1988, Andare in Africa in cerca di droga (Bajarse al moro) (1988), Se ti dico che sono caduto (Si te dicen que caí)(1989), La blanca Paloma (1989), Légami! (¡Átame!) (1990), La otra historia de Rosendo Juárez (1990), Contro il vento (Contra el viento) (1990), A letto con Madonna (Madonna: Truth or Dare) (1991) - documentario, Terra Nova (1991), Una mujer bajo la lluvia (1991), Cuentos de Borges I (1991), I re del mambo (The Mambo Kings) (1992), Spara che ti passa (¡Dispara!) (1993), La casa degli spiriti (The House of the Spirits) (1993), Philadelphia (1993), Il giovane Mussolini (1993) - Film Tv, D'amore e ombra (Of Love and Shadows) (1994), Intervista col vampiro (Interview with the Vampire: The Vampire Chronicles) (1994), Promesse e compromessi (Miami Rhapsody) (1995), Desperado (1995), Four Rooms (1995), Assassins (1995), Mai con uno sconosciuto (Never Talk to Strangers) (1995), Two much - Uno di troppo (Two Much) (1996), Evita (1996), La maschera di Zorro (The Mask of Zorro) (1998), Il tredicesimo guerriero (The 13th Warrior) (1999), Incontriamoci a Las Vegas (Play It to the Bone) (1999), White river kid (The White River Kid) (2000), The Body (2000), Spy Kids (2001), Original Sin (2001), Femme fatale (2002), Frida (2002), Spy Kids 2 - L'isola dei sogni perduti (Spy Kids 2: Island of Lost Dreams) (2002), Ballistic (2002), Spy Kids - Missione 3D: Game Over (Spy Kids 3-D: Game Over) (2003), Immagini (Imagining Argentina) (2003), C'era una volta in Messico (Once Upon a Time in Mexico) (2003), Pancho Villa, la leggenda (And Starring Pancho Villa as Himself) (2003) - Film TV, The Legend of Zorro (2005), Ti va di ballare? (Take the Lead) (2006), Bordertown (2007), Homeland Security (My Mom's New Boyfriend) (2008), L'ombra del sospetto (The Other Man) 2008), The Code (Thick as Thieves) (2009), Incontrerai uno sconosciuto alto e bruno (You Will Meet a Tall Dark Stranger) (2010)

Paolo Arfelli

domenica 28 agosto 2011

Natalie & Portman sulle ali del “Cigno Nero” di Darren Aronofsky


A diciassette anni dall’esordio di Leon, il ritorno al thriller di una ex-bambina prodigio, sulle note del “Lago dei Cigni” di Tchaikovsky

Rivisitazione in chiave noir del celebre compositore russo, tratto dal romanzo fantasy originale di Mercedes Lackey.

Che i film basati sulla danza siano terreno fertile e felice, non è una novità per il riscontro di botteghino oramai collaudato dal cinema americano, annoverando schiere di teen-ager, incantati e sublimati dalla danza in chiave musical, vedi i recenti Step Up diretti in due episodi da Anne Fletcher e Jon M. Chu, abdicando il postmoderno Hip Hop per riappropriarsi della cultura classica a cui la danza effimera resta abulicamente ancorata, per voglia e tradizione. Denunciando un pallido tentativo di misticismo oscuro del maestro del brivido Dario Argento nel suo Opera, dove la ribalta vede sempre protagonisti conflitti edipici nel nome del prosaico romanzo scritto da Gaston Leroux, Il Fantasma dell’Opera, debutto cinematografico del ’25 di Rupert Julian e innumerevoli trasposizioni a seguire (citiamo l’omonimo del maestro Brian De Palma, Il fantasma del Palcoscenico, girato nel ’74 e con un cinico appellativo Swan nel conflitto musical-rock-psichedelico di un discografico che deturpa un musicista per avidità), oggi tocca a Darren Aronofsky riarrangiare uno dei temi più ambiti nel nome del thriller psicologico di “ampie vedute”. La storia è firmata Andres Heinz, sul romanzo originale di Mercedes Lackey uscito un decennnio fà e sceneggiato assieme a Heyman-McLaughlin, sapientemente riveduta e ricucita per l’attrice Natalie Portman, cresciuta studiando “sulle scarpette a punta” e perfetta per incarnare il clichè della fragile personalità sposata al dramma vissuto dalla protagonista Odette dell’opera originale, a sua volta tratta da una fiaba tedesca, Der geraubte Schleier (Il velo rubato), sulle note del celebre balletto musicato in quattro atti del compositore russo Peter Tchaikovsky. Un inedito triangolo vestito di contemporaneità, dissacratorio nel ruolo di Thomas Leroy, moderno Siegfried, coreografo regista dell’opera stessa che deve mettere in scena, conteso dalle due prime ballerine Nina e Lilly (Mila Kunis), nello sdoppiamento di personalità che la Portman affronta dall’odio riversato nella rivalità con la propria antagonista in amore, nella surreale trasfigurazione che la porta a debellare i propri conflitti interiori, nati dal rapporto morboso e bulimico con la stessa madre (Barbara Hershey). Fotografia di rito ad accompagnare il ritmo claustrofobico della storia, firmata Matthew Libatique sulle scenografie di Thérése DePrez, per un film drammatico che riporta la Portman ai propri meriti, vincitrice di un meritato Golden Globe come miglior attrice protagonista (in aggiunta a vari analoghi riconoscimenti, tra i quali il BAFTA 2011 e l’AUSTIN FILM CRITICS ASSOCIATION), senza tralasciare il premio Marcello Mastroianni dato a Mila Kunis alla 67° Mostra del Cinema di Venezia, di cui ne ha aperto la manifestazione, mentre attendiamo impazienti la consacrazione sulla ribalta al galà degli OSCAR.

Paolo Arfelli

venerdì 26 agosto 2011

“Tempo da Lupi” per il Cappuccetto Rosso Sangue di Catherine “twilight”Hardwichke


Rivisitazione in grande stile della favola popolare di Charles Perrault, nelle atmosfere neo-gotiche rivalutate dalla regista iniziatrice della saga di Stephenie Meyer

Un triangolo amoroso, una nonna, un bosco tenebroso e una maledizione da autentici lupi mannari. La favola è servita.

“Che occhi grandi che hai”, e per rispondere ci pensa la stessa Hardwichke, regista ormai immersa in quel vortice atemporale fatto di eroine romantiche immolate agli amori impossibili, travestiti da tenebrosi emaciati e imberbi lupi senza pelo addolciti dall’età. Dopo il successo del primo Twilight, dove l’ostinazione di Bella viene premiata, non solo al box office, ma come nuova icona di un filone gotico-adolescenziale capace di rivestire nuove metafore in salsa post moderna, Catherine Hardwichke ha dovuto soccombere ai voleri della Warner Bros e dai “desideri” di un Leonardo DiCaprio (in veste anche di sceneggiatore) fondatore della Appian Way, forse più per riappropriarsi del ruolo mancato del 17enne Edward Cullen, per sopraggiunti limiti d’età. Ma tutto sembra risolversi con la stessa formula, riadattando la più popolare delle favole per fanciulli, scritta da Charles Perrault (Le Petit Chaperon Rouge, 1697) e ripresa dai fratelli Grimm, ricreando una inedita adolescente, Valerie (Amanda Seyfried, reduce dall’analogo ciclo vampiresco di Jennyfer’s body) combattuta dall’amore per due giovani, il rassicurante Peter (Shiloh Fernandez) e il prescelto Henry (Max Irons), uno dei quali sembra celare un temibile segreto riposto in una maledizione della Luna Rossa, che attanaglia ogni mese nel terrore gli abitanti del villaggio. Sapori da neo serial televisivi che ormai allungano il passo con un cinema che ha forse paura di deludere le aspettative, ma tutto riposto nelle “rassicuranti” pretese di un pubblico under 18, che facilmente riassorbe ruoli e valori, basta che siano serviti con cura e maniacale dovizia (trucco ed effetti speciali nelle mani di Sharon Markell, Julie McHaffie e Bill Terezakis), capace addirittura di far riciclare Billy Burke (ex padre di Isabella Swan) e un inedito Gary Oldman nelle vesti del prete cacciatore, padre Solomon, riesumato da La Lettera Scarlatta di Roland Joffè. Non mancano la nonnina (Julie Christie) e il proverbiale confronto con “chi si cela sotto il pelo del lupo cattivo”... quindi, siamo tutti pronti per sederci in sala, accomodarci in poltrona e riascoltare la “solita” favola di cappuccetto rosso!

Paolo Arfelli

Che fine ha fatto Dylan Dog?


Punta di diamante del fumetto italiano, il personaggio creato da Tiziano Sclavi torna sullo schermo, reinventato dal regista Kevin Munroe

Brandon Routh in “giacca e camicia rosso-vermiglio”, per un film che vuole immortalare il personaggio cult di Sclavi, tra i meandri splatter americani.

Ampiamente anticipato con flash da incubo degni del personaggio stesso, in quell’attore reduce dalle prodezze firmate da Bryan Singer (Superman returns), subito demonizzato dagli autentici estimatori del fumetto tutto made in Italy, creato sulle fattezze del longevo attore Rupert Everett (ricordate DellaMorte DellAmore?), oggi è in sala, cercando di mantenere stima e fede (il più possibile) al pathos originale di una saga splatter che ha sempre voluto distaccarsi dall’infelice spazzatura di rito, nato dalla fantasia di Tiziano Sclavi e battezzato dal poeta Dylan Thomas, a cui ha prestato nome e incipt creativo, in quelle citazioni e rimandi alla serie cinematografica di Nightmare, volute dallo stesso Sclavi nel domiciliare il personaggio nella Londra contemporanea già dal 1986 (anno di nascita editoriale), presso Craven Road street (Was Craven l’inconsapevole artefice, sceneggiatore e regista della saga horror originale). Il pasticco sembra essere stato digerito con dovizia e dedizione, visto il primo approccio al personaggio, nel film diretto da Michele Soavi e interpretato proprio dall’attore feticcio di Sclavi, Rupert Everett. Protagonista in una citazione negli albi a fumetti, come vuole la stessa dissociazione di rito, il solitario becchino di un Cimitero milanese (Francesco DellaMorte) dedito a uccidere ogni cadavere che cerca di redimersi dal riposo eterno, oggi è stato riesumato in quell’universo parallelo, creato dal regista Kevin Munroe, acconsentito dalla Sergio Bonelli Editore, in un valzer inedito di personaggi che cercano di valorizzare al meglio il culto originale del fumetto. Lo scenario americano di New Orleans è adeguatissimo alla nuova trasposizione (“girarlo a Londra sarebbe costato quattro volte di più”, come ha declamato lo stesso regista), rimuovendo lo stesso assistente Groucho (creato sulle fattezze di Groucho Marx) con l’analogo Marcus Adams (l’attore Sam Huntinghton), zombie renitente che aiuta il detective Dylan a debellare i nuovi mostri che invadono la sceneggiatura firmata da Joshua Oppenheimer e lo stesso Thomas Dean Donnelly. Restyling anche nella compagna Elizabeth Ryan (l’attrice Anita Briem), ampio riassunto delle donne che affollano l’originale fumetto, da Morgana a Lillie Connolly, per concludersi con l’attrice Anna Never, distratta e svampita al punto di essere allontanata dagli stessi produttori. Rimangono intatti i proseliti del maggiolone, l’automobile simbolo del personaggio, ritoccando il colore bianco del fumetto con un mix di inserti neri, per presunti problemi con i diritti d’autore reclamati dalla Walt Disney. Insomma... se volevate Dylan Dog sul grande schermo, non c’è modo migliore di gustarselo, garanti la Platinum Studios, che di certo non fanno rimpiangere vampiri e licantropi degni della migliore tradizione... e buoni incubi a tutti!

Paolo Arfelli

giovedì 25 agosto 2011

Fumetti d'ARTE

La Scuola argentina ed europea come illustre vetrina del fumetto mondiale, in Gimenez, Breccia, Mandrafina, Garcia Seijas, Milo Manara, Guido Crepax, Benito Jacovitti e Bruno Bozzetto

Retrospettiva sui maestri della scuola del fumetto internazionale, nel parallelismo con i grandi artisti del passato.

Il mestiere del “fumettaro” ha sempre destato un apparente scetticismo, dato principalmente da un valore approssimativo conferito a chi produce un prodotto di massa come l’illustrazione “usa e getta”, facilmente reperibile e paradossalmente dispensatrice di doti grafiche di inestimabile pregio, non tanto avvilite da una superficialità di stile da attribuire a chi del culto cerca di avvalorarne sia i pregi che i difetti, ma fonte, quindi, di rinnovabili qualità che si associano ai linguaggi di comunicazione che confluiscono sia nel cinema che nell’arte madre di tutte le arti; la Pittura. L’illustrazione assume il ruolo indispensabile di “veicolo di massa”, ricercando quei legami indissolubili nei canoni teorici che determinano la grandezza dell’artista, oltre ogni criterio di giudizio. Facendo un passo indietro, nel patrimonio artistico mondiale, è compito minuzioso ristabilire quel vincolo con la principale espressione visiva e grafica, ricercando, tra i pittori di ogni tempo, la maestria che ha garantito il rinnovarsi di tecniche e stili di disegno. In questa retrospettiva, suddivisa in tre parti, è mio interesse ristabilire un legame concreto tra queste due realtà, riportando la scuola argentina come apice di un valore artistico di primaria importanza, analizzando i principali maestri che possono essere considerati patrimonio artistico mondiale, in Juan Gimenez, Domingo Roberto Mandrafina e Alberto Breccia.

Per leggere il Supplemento e-book in formato pdf, scarica il file al seguente indirizzo (2 MBytes):

https://www.alphabetype.eu/CTA_supplemento_fumettidArte1.pdf

P. A. Vannucci

martedì 23 agosto 2011

X-MEN riparte da zero!


Matthew Vaughn rispolvera l’originale fumetto Marvel, in una inedita versione del gruppo di mutanti in salsa teenager, guidati dalla rivelazione McAvoy-Xavier

Il prequel della saga diretta da Bryan Singer (in veste anche di produttore), per reinverdire uno dei fumetti storici creati da Stan Lee.

Dimenticatevi i nuovi albi della Marvel e recuperate le vecchie serie cronologiche di “quando anche le copertine erano tutte disegnate a mano”... questo sembra voler incitare il regista Matthew Vaughn, dopo aver accettato il testimone del prolifico Singer, autore dei precedenti due episodi della trilogia, proseguita da Brett Ratner e conclusasi con l’inedito dedicato al personaggio di Wolverine, girato nel 2009 e con un Hugh Jackman ormai stanco di tirare fuori gli artigli di Logan, almeno per non demolire l’autentico “progetto” creato da Stan Lee e Jack Kirby (una co-produzione neozelandese/australiana che farebbe destabilizzare qualsiasi fumettaro fedele alla tradizione di casa Marvel), per poter riscrivere, oggi, quel capitolo iniziale che riparte con le promesse di una rigenerata trilogia. Per evitare “bisticci famigliari”, tutto si recicla con la cruenta “iniziazione” di Magneto (Bill Bilner il giovane attore che precede Michael Fassbender), nella tragica separazione e uccisione dei propri genitori per opera dei gendarmi nazisti, guidati dal Dottor Schmidt (un inconsueto Kevin Bacon), perseguitato a sua volta dall’Erik adulto, scoprendo la mutazione che ha trasformato lo stesso assassino nella minaccia combattuta dallo stesso Charles Xavier (James McAvoy), alleato della CIA, nella speciale “Divisione X”. La Scuola per mutanti sembra essere al completo (assistita dall’Agenzia presieduta dall’Uomo in Nero, Oliver Platt), se aggiungiamo la biondina Raven Darkholme/Mystica (Jennifer Lawrence) e il timido e occhialuto Hank McCoy/Bestia (Nicholas Hoult), renitente nel mostrare le proprie prodezze “ginniche” sotto gli occhi entusiasti del giovane Xavier. I meriti sembrano andare tutti alla fotografia di John Mathieson, immortalando un gruppetto di giovani eroi in stile anni ‘30, ma impeccabilmente attuali, come lo stesso Bryan Singer ha magicamente risorto l’icona della DC Comics nel Superman returns di qualche anno fa. Assecondando una inedita Angel, nelle mutanti forme di una spogliarellista (l’attrice Zoe Kravitz), il tassista Armando Munoz/Darwin (Edi Gathegi), Sean Cassidy/Banshee (Caleb Landry Jones) e Alex Summers/Avok (Lucas Till), la pace sembra essere ristabilita con gli “oneri-errori” dei precedenti film pur sempre attuali, ma il merito sembra essere dovuto al carisma del giovane James McAvoy, stella emergente dello star system, battezzato da Andrew Adamson nel primo episodio de Le Cronache di Narnia – Il Leone, la Strega e l’Armadio (era l’elfo dal piffero magico) e contemporaneamente in sala con l’attuale The Conspirator di Robert Redford, anacronistica ricostruzione d’epoca dedicato all’assassinio di Abramo Lincoln, al fianco di Robin Wright-Penn e Kevin Kline. Che la Saga di X-MEN possa avere nuova vita...

Paolo Arfelli

Disney-Pixar in vacanza con CARS 2


A sei anni dall’uscita del primo episodio sempre diretto da John Lasseter, ritorna l’euforica parodia di Saetta McQueen, in restyling da vero “spy-movie”

il creatore della Pixar rimette anima e cuore nel suo lungometraggio più “vintage” dedicato al mito dei “motori ruggenti”.

Di strada ne ha fatta il pacioso Lasseter, rivoluzionario promotore della computer graphic in casa Disney, quando ancora il cartone animato doveva essere tale (quella testardaggine gli è costata prima un licenziamento per poi riassumerlo come presidente), incuriosendo tutti con il primo lungometraggio (e che lungometraggio!), Toy Story, battezzando il lungo cammino della “sua” Pixar, per arrivare oggi a quel sequel ovvio e atteso dedicato al mito delle quattro ruote e al sogno americano in stile country-vintage. 3000 sofisticati computer e 17 ore di lavoro per ogni fotogramma, hanno ridato vita e colore alla spumeggiante auto da corsa più “intraprendente” della storia del cinema (sempre in debito col mitico maggiolino Herbie, creato da Robert Stevenson, da cui ha ereditato grinta e determinazione), il “vivace” Saetta McQueen, protagonista di quella rocambolesca fuga dalla mitica Route 66 (la statale più “polverosa” d’America) e dalla nostalgica cittadina di contea di Radiator Spring, alcova di auto nebulizzate da un glorioso passato finito nel dimenticatoio della vita moderna. La Piston Cup rivive nel secondo episodio che vede protagonista quello scenario incontenibile degli autodromi da millemiglia, sostituita dal Grand Prix Mondiale (omaggio al Grand Prix di Montecarlo), che dovrà decretare l’Auto più Veloce del Mondo. I personaggi ci sono tutti, dal fedele “Cricchetto” alla compagna Sally Carrera, per rivoluzionare quel vortice di colore e velocità che ha omaggiato il Getaway dell’autentico Steve McQueen, accostando nuove spalle d’autore alle riuscitissime macchiette di Luigi (la 500 più “venduta” d’America, visto i contemporanei proseliti di casa FIAT), Guido e Flo, con la new entry “Mamma Topolino”, doppiata dalla veracissima Sofia Loren, per non far dimenticare il personaggio di DOC, nel precedente cameo di Paul Newman, scomparso nel 2008. Per non far passare inosservata tanta veemenza di stile, il tocco d’autore dello stesso regista, nella propria reincarnazione in gomme e carrozzeria con il personaggio di John Lasse(tire), un furgone giallo che non fà di certo oscurare l’italianità del personaggio Francesco Bernoulli, autentica star da Formula 1 in veste tricolore (John Turturro la voce originale), per omaggiare i 150 anni dell’unità nazionale, nel vincolo tutto made in Italy del GP di Monza. Gli ingredienti sono “oliati e riforniti” a dovere, per non far passare inosservata l’ultima fatica di papà Pixar, ... augurandovi un Ka-Ciao da autentico bolide!

Paolo Arfelli

Elia Kazan "secondo" Martin Scorsese


Nel 150° anniversario dell’unità nazionale, retrospettiva di un cineasta che ha celebrato il cinema drammatico, attraverso l’intenso ritratto raccontato dal regista Martin Scorsese

Appunti di un diario scritto da un regista per un regista che ha istruito il cinema hollywoodiano.

Ci voleva il “D-day” nazionale italiano per poter riavvicinare la cultura popolare nel nome dell’educazione cinematografica spogliata dalle inibizioni date da quel pilastro battezzato Actor’s Studio, fondato nel 1948 dallo stesso Kazan insieme a Lee Strasberg, e che ha fatto conoscere al mondo e a intere generazioni di fedeli seguaci, i grandi attori negli esordienti Marlon Brando, James Dean, Gregory Peck e la stessa Liz Taylor. Tutto sembra paradossalmente lo specchio di una Italia che cerca di rinvigorire le proprie radici, annaffiandole con un campanilismo culturale che vuole rafforzare quello spirito ridotto in stracci da un ordine politico che non sembra volerne venire a capo, da uno sfaldamento sociale dei valori che ci riportano a quella Italia “povera” rinata nel dopoguerra, sfaldata in quel Regno costretto a recedere nel nome di una neo-Repubblica creata da un regime fascista annientato da uno spirito partigiano che è figlio di quel risorgimento che ha “librato” animi letterari intinti in quei nomi celebri di statisti che non sembrano assomigliare in nulla all’Italia politicante di oggi. La Libia ha dimostrato di essere quel ponte di rigetti formali che ha fatto diventare il nostro paese quella prova di anti-razzismo che ciascuno di noi non vuole avere il coraggio di rinfacciare... Tutto questo è l’anima e il talento di un regista che ha saputo raccontare i travagli emotivi e sentimentali dati dallo stato sociale di un Paese che accomuna le debolezze e le fragilità di ogni uomo, passando dal realismo culturale a quello romanzato (La Valle dell’Eden rimane il classico teatrale più adorato della storia del cinema), scavando nelle paure date da quelle tematiche sociali che passano dall’immigrazione (quale tema più vicino a noi) raccontata ne Un albero cresce a Brooklyn, alla lotta di classe ne Il Mare d’Erba, per destabilizzare la stessa “informalità” politica di un uomo di sinistra, scomodo per quell’America democratica che non sapeva scindere il comunismo dei tempi con uno spionaggio che debellava “a tutti i costi” simpatie troppo di parte. A Kazan è toccato il peso di un ideale troppo progressista per quei giorni, raccontando la propria tragedia personale nel film più rappresentativo della sua carriera, in quel Fronte del Porto che ha consacrato il mito di Marlon Brando, mascherando il proprio “tradimento” con una mafia riveduta dalla sceneggiatura. Martin Scorsese lo ha così celebrato come solo lui è capace di raccontare, anacronistico e con l’occhio di un cineasta che ama “gesticolare” con la cinepresa, da vero italiano DOC, nel film A Letter to Elia, lo stesso libro scritto in coppia con Kent Jones, un diario di appunti, ricordi e devozioni a un grande “compagno” del cinema mondiale. Bologna lo ha voluto ricordare ne “Sotto le Stelle del Cinema 2011”, la più grande rassegna di cinema all’aperto, “caduta” nel mese di luglio... mentre noi continuiamo a ricordarlo, oltre ogni ricorrenza di parte, come un Grande Regista che rimarrà per sempre.

Paolo Arfelli