sabato 21 dicembre 2013

Frozen Official Elsa Trailer (2013) - Disney Animated Movie HD

INDOVINA CHI VINCE A NATALE?

INDOVINA CHI VINCE A NATALE?
Fausto Brizzi convince a chi crede in Babbo Natale, festeggiando insieme alla Disney di Lasseter con il suo FROZEN

Diego Abatantuono si incorona Re del Natale, per una comicità che premia il cinema natalizio dei buoni sentimenti, tutto sotto lo scettro della Pixar con il fiabesco adattamento della storia di Christian Andersen.
 
Ebbene il colpaccio si è ripetuto per la seconda stagione consecutiva... segno che il “popolo” italiano delle Vacanze sa ancora apprezzare il buongusto della tradizione più attaccata al periodo dell’anno in cui tutto deve essere incorniciato in nastri rossi e vischi a più non posso, facendo stressanti file per assicurarsi che l’ultimo pacchetto natalizio sia stato confenzionato a dovere. Lo stesso ragionamento lo ha sicuramente fatto il nostro Fausto Brizzi, già abituato a quel cinepanettone che ormai sà più di parolaccia rivestita a dovere, per tornare ad essere definitivamente quel delizioso momento di 90 minuti in cui tutto scorre sotto il monito della commedia italiana che non guarda in faccia a nessun periodo dell’anno, senza ipocrisie e diritto allo stomaco. E Christian De Sica ha salutato tutti con l’ultimo “disaster Movie” passando il testimone a Paolo e Luca, per accontentare chi vuole giustamente credere alla risata di poche pretese. La gavetta di Brizzi, diplomato al centro sperimentale (sembrava) solo per assoldare ai doveri di un Neri Parenti che gli faceva scrivere tutti i più recenti dozzinali Natali in ogni dove e con tette e culi al macello, si è infine dimostrato quell’autore di talento in cui tutti hanno sempre creduto, dalla fiction televisiva per arrivare a toccare quel “mostro” sacro di Francesco Mandelli, rubato ai I Soliti Idioti per dirigerlo nel più misurato Pazze di me. Quest’anno ripesca un collaudato Diego Abatantuono, ormai “purosangue” senza esitazioni di stile, per incorniciare la fidanzatina italiana Cristiana Capotondi insieme al “bellone” più cool del nostro cinema, uscito dai ranghi di Moccia e prestando il suo nome (Bova... Raoul Bova) a questo film che si preannuncia già come un elisir di buoni sentimenti dai sapori di Oscar più “devastanti” (non possiamo non nominare Il mio piede sinistro), per un belloccio che fà intenerire i cuori femminili tra un sorriso e un’amarezza, per essere un monito a quell’handicap che c’è ma non si vede, un pò come il nostro Governo che sembra di voler giocare con le sorti di noi contribuenti. Intanto il cinema è un nostro sacrosanto diritto, e la Disnsey-Pixar ha fatto le cose in grande anche per il rifacimento della storia classica di Andersen ispirata a “La Regina delle Nevi”, con un Brignano nostrano che riesce a caratterizzare il suo Olaf con quel tocco di originalità che sà di furbizia di mestiere per chi di doppiaggio se ne intende un pò di più, e l’Autieri come spalla se la cava benissimo. I giochi sono fatti, e le corse ai multisala sono l’ansia che ci tocca subire per non farci scappare l’ultima uscita della stagione... sempre nel buon nome del cinema. Quello buono, come sempre. BUON CINENATALE A TUTTI!       


Paolo Vannucci

mercoledì 4 dicembre 2013

CINENATALE 2013: cuciniamoli a fuoco lento!

La strenna natalizia sulla griglia del botteghino, con un cinema italiano che stenta a scendere ai patti con i Kolossal americani di fine stagione

Mentre Checco Zalone beffa  De Sica e Pieraccioni, anticipando il cinepanettone a novembre, i giochi di Hunger Games accompagnano la scalata dell’Hobbit di Peter Jackson.
 
DiCINEMA: CINENATALE 2013
Non ci possiamo credere... eppure è successo! Checco Zalone è riuscito a strappare il malloppo preconfezionato di De Sica, concedendosi il “lusso” di annacquare lo spumante di fine anno con la spicciolata di novembre, approfittandosi di un mattatore forse un pò troppo stanco di fare il verso al cinepanettone di un tempo, accompagnato dalle solite spalle di Lillo e Greg nel suo Colpi di Fortuna, con lo smalto meno laccato dalle traversie nazionalpopolari che ci costringono a trattenere una risata di troppo. Questo a favore del disimpegnato Checco “nostrano”, ormai entrato nelle simpatie di chi non riesce fare a meno di quella dissacratoria risata di facili costumi, ma sempre rispettoso di quel cinema che può ancora chiamarsi commedia all’italiana (quella a colori di Sordi, Manfredi e Montesano, per intenderci), e Sole a catinelle fà centro un’altra volta... per fortuna! Questo ci fà riflettere su questa tormentata “volata” di fine anno,  uguale e diversa da tutte le altre. Mentre il secondo episodio di Thor: the Dark Wolrd cerca di mantenere alti i consensi della Marvel, tinteggiando di espressionismo plastico (una lode alle scenografie di Charles Wood) le gesta di un biondo e muscoloso Chris Hemsworth che riesce a convincere più di Avengers  e meno di Rush, a ristabilire la tradizione del cinema natalizio tocca nuovamente a Peter Jackson, che prosegue imperterrito nel suo infinito viaggio nella Terra di Mezzo sulle spalle di Bilbo Baggins/Martin Freeman, aggiungendo un terzo episodio per una inedita trilogia dedicata al patriarca di Frodo, prestandone il titolo Racconto di un Ritorno al terzo in uscita il 2014, per gustarci questo Lo Hobbit: la desolazione di Smaug, ormai sempre più sazi di quella Nuova Zelanda fotografata da Andrew Lesnie e “battuta” da Gandalf il Grigio/Ian McKellen tra orchi e nani a più non posso, ma con un’atmosfera narrativa che delizia il palato dei più esigenti e non. Questa lunga trasferta di novembre continua con le fortunate vicende della trilogia scritta da Suzanne Collins, che dei proseliti di Twilight sembra solo conservarne l’autenticità dei personaggi, sorretti da una claustrofobica e adrenalinica trama apocalittica/fantasy che riesce sempre a rigenerare nuovi entusiasmi, vuoi per la freschezza adolescenziale a cui deve il proprio fascino, vuoi per l’abilità scenografica a cui il cinema ha sempre fatto riferimento, dal peplum alla fantascienza più sofisticata. Jennifer Lawrence (già reduce da un Oscar) e Josh Hutcherson sono impeccabilmente perfetti nell’evoluzione sociale di questo Videodrome circense polimorfico e assassino che assorbe e “rimasterizza” tutti i clichè contemporanei, (Hunger Games-La ragazza di Fuoco, il titolo del secondo episodio) miscelando religione e consumismo degni di culti letterari più adulti di quel che possano sembrare. Il risultato è rimesso nelle sorti di noi “comuni mortali e spettatori”, padroni almeno di poter scegliere e decretare il vincitore di questa estenuante lotta di fine anno (e Pieraccioni si assicura il colpo grosso con la complicità di Paolo Genovese alla sceneggiatura del suo Un fantastico Via Vai, alla pari con l’inedito classico Disney-Pixar Frozen, ispirato alla tradizionale favola di Andersen “La Regina delle Nevi”), con la certezza di trovarci lo stesso appuntamento tra dodici mesi, con qualche variante nel titolo e nei nomi degli stessi attori che continuano a dare il meglio di se stessi, nel buon nome di un mestiere. Parola di Peter Jackson...       



Paolo Vannucci

domenica 3 novembre 2013

DiCinema: la nuova Hollywood

Bill Murray (DiCinema: la nuova Hollywood)
Un viaggio nello star system mondiale, per conoscere gli attori e i registi  che hanno rinnovato l’ultima generazione di miti in celluloide

Ilarità e commedia disimpegnata, per uno dei volti più popolari della comicità americana, nel talento di Bill Murray.
  

Quando essere comici può bastare a valorizzare un estro di artista che vale esclusivamente nell’essere “fieramente” capace di far ridere: Bill Murray. Claudicante star in ascesa del solito, celebrato SNL, subentrato nella programmazione televisiva grazie all’uscita di Chevy Chase, quel giovane comico dell’ Illinois, nove fratelli e genitori di modeste origini irlandesi, abdica inzialmente gli studi di medicina per intraprendere quella carriera di attore che lo ha visto debuttare in teatro per passare da quell’amicizia con lo stesso artefice di quel successo chiamato Ghostbusters (vero alfiere del programma statunitense), in quel di Dan Aykroyd. Diretti da Ivan Reitman, comprimario lo stesso Harold Ramis che lo ha voluto dirigere nel riuscito Ricomincio da capo, felice commedia nei paradigmi temporali affidati alla comicità estrema, con Andie MacDowell ad addolcire le ansie di uno scapestrato giornalista in fuga dal tempo. Un’affermazione cinematografica avvenuta nel pilot di Stripes – Un plotone di svitati, per approdare nel cast stellare di Tootsie, spalla di un Dustin Hoffman ricordato per sempre nelle transgeniche fattezze di una “insolita” primadonna da soapopera. Il tocco di Frank Oz non affievolisce la valenza di Murray (Tutte le manie di Bob), accostandolo ad un Richard Dreyfuss che arride alla stessa valenza di Robert De Niro nel successivo Lo Sbirro, il Boss e la Bionda, insolito cocktail prodotto da Martin Scorsese, con un triangolo avvalorato dalla stessa Uma Thurman, in prossimità degli esordi. Un ritmo di testata comicità, sospesa a metà degli anni ottanta per affinare le capacità recitative, plasmate nell’analogo S.O.S Fantasmi (Scrooged), rivisitazione del classico dickensiano affidato all’esperto Richard Donner, sublime monolgo raffinato di Murray, che stupisce tanto quanto la celebrazione di Shakespeare nell’insipido Hamlet 2000 (colpa di Baz Luhrman?), incolore opera moderna di Michael Almereyda, quasi a sfatare lo stesso mito nell’analoga operazione pop voluta per il restyling cinematografico di un’icona televisiva statunitense, nel trio formato da Cameron Diaz, Drew Barrymoore e Lucy Liu, nel Charlie’s Angels diretto a due riprese (suo anche il sequel) da McG. Una verve comica che ha smaltato la scorza di una più matura valenza di attore “invecchiato” a dovere... ma che continua inesorabilmente nella sua elegante performance di abile giocatore (il golf, la sua passione, a cui ha dedicato un libro, Cinderella Story: My Life in Golf), in quel campo che ne ha decretato “buche e ostacoli”, ma sempre vincitore.

Paolo Vannucci

martedì 8 ottobre 2013

DiCinema: La nuova Hollywood

DiCinema: Steve Martin (2013)
Un viaggio nello star system mondiale, per conoscere gli attori e i registi  che hanno rinnovato l’ultima generazione di miti in celluloide

Comicità, vèrve e raffinatezza, per uno degli attori e autori di un cinema che ha mantenuto le aspettative della commedia tipica Hollywoodiana, nel talento ineguagliabile di Steve Martin.
  

Riuscire ad arginare un talento che può travolgere e definire i tempi di una rinnovata recitazione comica, senza marcare il confine tra la classica commedia e il revival  musical oltre ogni stile generazionale, può sembrare quasi impossibile... oppure, come il nostro Steve Martin ha saputo superbamente dimostrare, essere una grande realtà. Texano, come un buon whisky che non può deludere, con salde radici negli studi ordinari, fino alla laurea in filosofia. Il primo debutto in una compagnia teatrale formata nel periodo liceale, con un piccolo musical, per definire la propria carriera professionale solidamente indirizzata nello spettacolo.  Passare dalle prime esperienze televisive (The Smothers Brother Comedy Hour), alla fucina “obbligatoria” del Saturday Night Live, per approdare al cinema con una solida esperienza come autore. Tutto è iniziato con Ecco il film dei Muppet (The Muppet Movie, 1979), celebrazione dell’universo creato da Jim Henson, negli indimenticabili Kermit & soci, in un valzer di celebrità “investite” dai personaggi di pezza più popolari della TV (lo stesso Steve Martin, con il proprio talento, tenuto a battesimo quando da ragazzino lavorava presso il Magic Shop di Disneyland), per essere diretto da Carl Reiner (sue le sceneggiature) ne Il Mistero del cadavere scomparso (incursione atemporale nella commedia anni ‘40), Ho perso la testa per un cervello (brillante idea di un soggetto che vede Kathleen Turner disputarsi i favori di un neurochirurgo in cerca d’amore in un cervello femminile parlante) e Ho sposato un fantasma. La celebrazione del Saturday televisivo si completa con John Landis che dirige un travolgente trio di avviate conferme in Martin, Chevy Chase e Martin Short nel I Tre Amigos, parodia del cinema muto nei riflessi comici, a suo tempo contestati da un’eccessiva caratterizzazione messicana dei personaggi, per completare il genere fanta-comico-splatter con il più celebrativo La piccola bottega degli orrori, con Frank Oz a “deliziare” un raccapricciante quasi musical (in origine basato su una commedia Off Broadway di Howard Ashman), con Rick Moranis ad affiancare Martin, nel ruolo chiave del dentista sadico. La prima incursione nella trasposizione “ad Opera” (sua anche la produzione) avviene per mano di Fred Shepisi a dirigere Roxanne, divertente commedia tratta dal Cyrano di Edmond Rostand, con Daryl Hannah nel ruolo di una rivisitata astronoma in dipartite di cuore, seguita dal più elaborato Pazzi a Beverly Hills (L. A. Story), shakespeariana trasfigurazione a vantaggio degli status sociali (Sarah Jessica Parker e Victoria Tennant tra i protagonisti). Ron Howard lo dirige in Parenti, amici e tanti guai, riunione di famiglia con un collettivo di tutto rispetto (con Tom Hulce, Keanu Reeves e  Dianne West), per riproporlo nuovamente ne Il Padre della Sposa (entrambi i film diretti da Charles Shyer), nel rifacimento di un classico della commedia anni 50. Di ottimo impatto, il riuscito lavoro di Kasdan, nel Grand Canyon sempre a favore di Kevin Kline (da citare anche Danny Glover e Mary McDonnell), per sondare il difficile terreno fertile della religione-spettacolo, con Debra Winger a rafforzare il soggetto. Si susseguono lavori di doppiaggio, da Il Principe d’Egitto a Fantasia 2000, per risondare l’ennesimo remake di un altisonante capolavoro di Blake Edwards, La Pantera Rosa, nel ruolo che fu di Peter Sellers, in due episodi rispettivamente diretti da Shawn Levy e Harald Zwart. Una carriera di successi che hanno sempre confermato una ineguagliabile mimica e caratterizzazione, che non hanno mai deviato i tempi della commedia tipica americana, soprattutto quando il valore della comicità non è mai un espediente in cerca di prodezze da Oscar.   

Paolo Vannucci

mercoledì 11 settembre 2013

"RIPUFFIAMO" CON I PUFFI 2


Ritornano le avventure dei simpatici ometti blu creati dal belga Peyo, nel sequel ideale sempre patrocinato dalla Sony Pictures Animation

Computer grafica “figlia dei tempi” per il secondo episodio sempre diretto da Raja Gossnell.

Chi l’avrebbe mai detto che da una “puffosa” giornata come tante, nella sobria noia di un disegnatore distratto, potevano nascere delle creaturine tanto audaci da far diventare quel tormentone “passami quel... puffo” uno dei colossi  della cultura a fumetti per i più piccoli di tutti i tempi? Se Pierre Culliford (in arte Peyo) non poteva immaginare le incalcolabili proporzioni di un simile successo, ci ha pensato la Sony Pictures Animation, in collaborazione con la Columbia, a dare “nuova vita” a quel progetto realizzato nel 2011 con il primo episodio sempre diretto da Raja Gossnell, caratterizzando quelle soffici forme bianco-blu dei buffi nanetti con tanto di cappello, che hanno colorato di sobria fantasia le giornate televisive dei piccini svezzati a “puffi a merenda”.  Un successo che deve la fortuna alla voracità della celebre coppia Hanna e Barbera, che nel 1981 ha battezzato la prima “valanga azzurra” (la nostra Cristina D’Avena ha potuto intonare quel ritornello, marchio a DOP della cultura vintage televisiva tricolore)  che ha fatto diventare un prodotto di inestimabile merchandising mondiale (bissando il successo del talentuoso Tin Tin del connazionale Hergè) il fumetto originale di Pierre Culliford, disegnato per la prima volta nel 1958 e trasposto nel primo lungometraggio d’animazione del ‘65  "Les Aventures des Schtroumpfs", vero prequel dell’invasione statunitense perpetuata dalla NBC sino al finire degli anni novanta, dopo che lo stesso Peyo è venuto a mancare nel 1992. Oggi si riparte da DUE, stessa formula, stessi ingredienti e stessa ilarità sulle spalle dei più smaliziati grandicelli, che volentieri si abbandonano a quella voglia di eterna gioventù, affidandosi alla nostalgica moda dei gadget in plastica colorata per deliziarsi nelle prodezze della nuova era tecnologica della computer grafica in 3D... per toccare nuovamente quei goliardici personaggi dai buffi nomi, così tanto simili alle nostre ansie quotidiane.  E’ così bello ritrovare un Mago Gargamella così autentico e fedele all’originale... e forse meglio, nella perfidia mimica di Hank Azaria, indaffarato a creare dei mefistofelici cloni degli innocui puffi blu (I Puffi Monelli, affidati alle voci di Christina Ricci e J. B. Smoove), sempre ammoniti dal saggio Grande Puffo, divertiti dall’intrepido Tontolone e razionalizzati dal serio Quattrocchi... e tutti in nome della Puffetta, dolce e sexy più che mai, rivalutata dalla inedita Colonna Sonora affidata alla Hit di Britney Spears, Ooh La La. Una formula mista battezzata dal Garfield diretto da Peter Hewitt, trasponendo l’omonimo fumetto nella simpatia del Gattone Rosso ritoccato dalla computergrafica e Live-Action, capace di creare quel ponte che solo la fantasia può costruire, per far diventare realtà le nostre innocenti nostalgie che si trasformano in soporifera umanità. I giochi sono fatti... e a noi piace tanto giocare, magari con un bel gelato al gusto di Puffo!      

Paolo Vannucci

sabato 17 agosto 2013

TURBO: la sfida della DREAMWORKS al colosso PIXAR è nelle sorti di una piccola lumaca!


La stagione estiva si conclude con le ambizioni firmate David Soren, per sorprendere le aspettative antitradizionaliste di una DREAMWORKS ANIMATION formato famiglia

Velocità e buoni sentimenti, per la parabola "sognatrice" che fà tremare la Disney-Pixar di Lasseter.

E’ proprio vero; "tremate, le corse sono tornate". O le lumache? esclamerebbe un più combattivo Ron Howard che stà per scendere ai box di una delle più attese sfide affidate ai bolidi su quattro ruote formato Formula Uno, con il suo Rush, dedicato al periodo d'oro siglato dal celebre duello firmato Niki Lauda-James Hunt (rispettivamente Chris Hemsworth e Daniel Brhul), proprio mentre la computergrafica è diventata l'additivo doping più supervalutato e abusato da ogni team sportivo... e qui si parla di major che si contendono le platee cinematografiche di vacanzieri "affamati" di pixel e originalità. Quando sembrava che Lasseter avesse innalzato un muro di insuperabile maestria con il suo innovativo Cars, in quel Saetta McQueen oggi rivisitato dalla stessa Disney (ora in veste di produttore esecutivo) con Dusty Crophopper, piccolo aereoplano che sfida i cieli in analoghe competizioni da vera star in Planes, ecco che la DreamWorks di Spielberg (chi meglio di lui) non resta di certo a guardare, visto il recente successo riscontrato con Le Cinque Leggende, immergendo un pubblico abituato alla linea antidisneyana battezzata con Shrek, per riprendere quel sapore di tradizione che di certo non guasta. Il risultato? un vero mix di zuccherosa filosofia in soffici forme colorate dalla simpatia dei personaggi, ricordandoci di quel nonnino di Up che tanto ci ha fatto commuovere, tra palloncini colorati che ci fanno vedere il mondo dall'alto dei cieli (proprio per questo ha vinto un Oscar, nel 2010, per l'animazione), ma questa volta la morale è riposta nei sogni di una giovane lumaca che sembra convogliare tutti gli stereotipi delle favole di successo, confermando una formula che è stata ammorbidita (forse) dalle recenti traversie sociali "manipolate" dagli adulti, che sposano l'amarezza con la soporifera redenzione di un lieto fine dal sapore di pop-corn e coca cola. Le trame sembrano sempre rimandi volenterosi di piacevole abilità artigianale (ebbene si, ora il cinema d'animazione è solo affidato alle penne ottiche e le tavole grafiche dei cartoonist) ed i nomi di quei personaggi sono come le macchiette uscite dalle tavole a fumetti della nostra infanzia. Nulla ci può scoraggiare a volerci affezionare a Turbo, geneticamente dopato a misura di sogni, affidato alla voce di Ryan Reynolds (reduce dal Jordan di Lanterna Verde) e Paul Giamatti, in quell'ambizione di correre tra l'asfalto di Indianapolis che marcia al ritmo di un cuore che riesce a farci desiderare di essere sempre vincitori. Almeno se accompagnati dai nostri figli!      

Paolo Vannucci



lunedì 1 luglio 2013

LONE RANGER E' TORNATO!


Corvi e pistole, per la cavalcata del ranger solitario firmata da Gore Verbinski, con Johnny Depp “coraggiosamente” Tonto

Dopo Pirati dei Caraibi, la miscela esplosiva di humour e azione a sugellare il ritorno al cinema del personaggio lanciato dalla WXYZ radio statunitense.  

Con Gore Verbinski non potevamo che aspettarci un vero cult dissacratorio e ambizioso al punto giusto, visto che per interpretarlo è ricorso al più collaudato “indio” che potesse accreditare nei panni di Tonto, vera star al fianco del Ranger ispirato all’ufficiale federale realmente vissuto al finire dell’ottocento, Bass Reeves, ripescato dall’autore Fran Striker dell’emittente radiofonica WXYZ che nel 1933 ne imbastì il primo programma a puntate (tremila circa in totale, celebrando il ventennale nel primo film girato nel 1956). Nulla di simile al nostro Johnny Depp contemporaneo, che del personaggio spalla originale sembra solo conservare la tipica sillabazione fonense, adattando il proprio look di nativo americano Comanche ispirandosi al dipinto originale di Kirby Sattler. Un film nato sotto gli ottimi auspici celebrativi, visto la recente firma del produttore Jerry Bruckheimer nella prestigiosa Walk of Fame, con lo stesso Depp come padrino della cerimonia, fresco delle sue cinquanta (ebbene sì) primavere. Una produzione Disney di ampi orizzonti, visto la recente “transizione” battezzata da Tim Burton con il suo Alice in Wonderland, poliedrico nel tratteggiare i personaggi nella frenesia circense colorata di follia. Il risultato che ne consegue è inevitabile, ritrovandoci quel cocktail di citazioni (tipiche della Disney formato cartoon) che ha trasformato la prateria della frontiera americana cara al fumetto originale (proseguito con successo negli albi della Western Publishing, per approdare alla recente produzione affidata alla Dell Comics) in una moderna contea di Hazzard dei Dukes formato Pirati dei Caraibi. Armie Hammer (l’attore) diventa così uno sprovveduto ranger riportato in vita dallo spirito di un indiano (Depp) che lo istruisce alla propria missione, prendendo in prestito le atmosfere di un analogo fumetto della DC Comics in formato celluloide nel nome di Jonah Hex, nella coppia Josh Brolin e Megan Fox diretti da Jimmy Hayward, che se ne possono trovare ampi riferimenti di trama e abilità cinematografica, attingendo nelle trasfigurazioni cromatiche che possono accomunare le tavole di entrambi. Se l’istrionismo di Depp può bastare a dare corpo alla sceneggiatura scritta da Justin Haythe, Ted Elliott & Terry Rossio, estremizzando quell’ilarità che ha potuto colorare un accademico Richard Donner nel suo “proverbiale” I Goonies, pizzicando lo stesso Brolin allora adolescente, di certo non possiamo essere turbati da una ennesima Helena Bonham Carter che dalla scacchiera della Regina di Picche si ritrova in un ennesimo compromesso temporale tra cavalcate (il sauro Silver è rimasto sempre bianco, per volere di Dio), fughe dal treno e caverne cupe da oscuri segreti. Clayton Moore può riposare tranquillamente in pace, visto che rimarrà l’unico Lone Ranger in carne e ossa in sella a quel ronzino che ha sfrecciato sulle note della celebre March of the Swiss Soldiers del Guglielmo Tell di Gioachino Rossini, per trovare residui sprazzi di celebrità televisiva nella serie animata a più riprese, iniziando dalla primissima del ’68 per approdare alla corposa riedizione della Filmation dedicata alle celebrità d’epoca (vedi Tarzan, Zorro e lo stesso Lone Ranger), finendo nella celebrativa serie del 2001 che ha dato l’incipt per un pilot televisivo arginato sul nascere, con Chad Michael Murray ad indossare la proverbiale mascherina nera. Con un Johnny Depp così in forma, Jay Silverheels (il Tonto televisivo original vintage) può invocare canti di battaglia sul piede di guerra... ne siamo più che sicuri
!
Paolo Vannucci

giovedì 20 giugno 2013

SUPERMAN REBOOT!


Dopo Brian Singer, il ritorno del kryptoniano più prolifico della DC affidato a Zack Snyder, con Henry Cavill ad indossare la Super S, nella riedizione più umanista che il cinema abbia potuto regalare

Restyling dei personaggi creati da Siegel & Shuster, per una inedita versione dell’eroe fondatore del fumetto della DC Comics.
  
Nemmeno i creatori originali del celebre superuomo avrebbero potuto desiderare di meglio. Quel piccolo alieno, orfano di un pianeta distrutto dall’implacabile Sole Rosso (ogni riferimento al nostro sistema è puramente scontato), timido e occhialuto come vuole la tradizione di ogni feticcio freak, ma che nasconde il segreto più tremendo che ogni essere umano possa “portare”, è tornato. Da quelle strisce disegnate da Joe Shuster e scritte da Jerry Siegel ne sono passate di trasposizioni più o meno riuscite. Dai programmi radiofonici statunitensi alla prima apparizione televisiva a cui George Reeves ha donato il fisico vestito da quella inimitabile calzamaglia rosso-blu che ha siglato la celebre frase “questo è un lavoro per Superman”, nel primo film realizzato nel ’51 (Superman and the Mole Man), per poi aspettare altri vent’anni per riavere un omonimo attore nel nome di Christopher (sempre Reeve), che nell’arco di dieci anni gira quattro episodi che lasciano un feticcio di vero culto amarcord per tutti gli estimatori del fumetto originale, prestando maggiore attenzione al primo di Richard Donner, celebre per quei dieci minuti affidati al grande Marlon Brando nei panni del padre alieno Jor-El,  ricevendo un onere di tre milioni di dollari per tanta presenza scenica di parte. Musica firmata John Williams, a cui hanno dato forza e rinascita le stesse gesta riproposte nel 2007 da Brian Singer (ennesimo ventennio di attesa), esperto del mondo Marvel con il prototipo degli X-Men per riprendere la storia laddove lo stesso Reeve aveva posto la firma come sceneggiatore del suo quarto capitolo, prima che rimanesse vittima di quell’incidente che lo ha paralizzato, nella stessa sfortunata sorte del predecessore, morto anch’esso per un “presunto” suicidio riportato sullo schermo da Ben Affleck in Hollywoodland. Se a Singer è stato rifiutato un sequel, a Zack Snyder è stato affidato il “pesante” compito di dare ritrovata stima alle origini di Kal-El (noi possiamo crogiolarci nell’originale Nembo Kid ribattezzato dalla Mondadori nel ’54), immergendo i personaggi in quella atmosfera da graphic novel tanto riuscita in 300, per dare un risvolto più umano (minimalista anche nel titolo, Man of Steel) ai conflitti interirori che si celano dentro ogni superuomo, metafora moderna  oggi più che mai di tutte le aspirazioni, riadattando la storia originale con un tocco di sapienza in più. Ci ritroviamo così un Russell Crowe in perfetto stile, per un Jor-El monolitico tanto quanto Brando, per proteggere un orfanello che si annoda una tovaglia al collo tra le lenzuola della madre, per segnare quell’infanzia che lo porterà a non dimenticarsi di un padre (Jonathan Kent, riproposto da Kevin Costner) che lo affida al suo mondo,  in quella lotta tra il bene e il male ripiegata in uno dei Supercattivi Kryptoniani per eccellenza, nelle ire di un Generale Zod (Michael Shannon) che induce un solitario eroe a dare valore alla propria ragione di esserlo. Bellissimo Henry Cavill nel ruolo più rischioso tra tutti i mutanti a fumetti, ristabilendo un rispettabile ordine al prequel devoto alle strisce degli anni 40 avvalorate da Brandon Routh. Riuscirà la nuova Lois Lane (Amy Adams) a dare un pò di amore a tanta sofferta disputa?

Paolo Vannucci

mercoledì 29 maggio 2013

DiCinema: la nuova Hollywood


Un viaggio nello star system mondiale, per conoscere gli attori e i registi  che hanno rinnovato l’ultima generazione di miti in celluloide

Uno dei volti più rappresentativi della Hollywood “perbene”, nel  fascino senza tempo di un talentuoso Leonardo DiCaprio.
  
Di ragazzini prodigio battezzati nelle serie televisive, varcato il nuovo millennio,  sembra che se ne possano disperdere i proseliti, visto con quanta commerciale audacia possano essere riciclati senza tante pretese. Ma questo non poteva succedere tanto facilmente, naturalmente quando si punta il dito nella culla sempreverde degli anni ’80, che ha visto crescere alcuni dei talenti cinematografici che hanno firmato il proprio nome nella walk of fame dello star system americano. Da Michael J. Fox a Tom Hanks, da Ricky Schroder a Ron Howard, tanti aspiranti giovani attori hanno avuto il merito di essere veri e propri talenti che hanno saputo mantenere alte le aspettative di critica e meritato successo. Leonardo DiCaprio, classe ’74, è decisamente uno degli ultimi “astri nascenti” di una felice casistica di giovani pargoli. Partendo da un tanto altisonante cognome paterno, fumettista dalle origini italo-napoletane, e da un nome avuto in merito ad un quadro del noto Da Vinci, mentre la madre lo ammirava col piccolo in grembo, la carriera dell’attore non poteva essere di miglior auspicio, contando su simili presupposti natali. Iniziato dalla soap opera Santa Barbara e proseguito il cammino nel più renumerativo Genitori in blue jeans,  il cinema lo accoglie con lo splatter Critters 3, firmato Kristine Peterson, per approdare alle soglie del successo, dietro l’ombra di un avviato Johnny Depp, nel Buon Compleanno Mr.Grape, firmato Lasse Hallstrom. Il successo comincia ad arrivare con il biopic Poeti dall’inferno, diretto da Agnieszka Holland, incentrato sullo scomodo rapporto omosessuale tra la coppia Arthur Rimbaud e Paul Verlaine (David Thewlis), con un’interpretazione del giovane DiCaprio che si preparava ad affrontare il successo venuto l’anno successivo (1996), con la fresca e originale riedizione del classico di William Shakespeare, Romeo+Giulietta, diretto da Baz Luhrmann (oggi alle prese  con Il Grande Gatsby), in coppia con la docile Claire Danes. In contemporanea col meno pretenzioso La Stanza di Marvin (al fianco di Meryl Streep),  il successo femminile del neo-Romeo si riconferma con il Kolossal firmato James Cameron, Titanic, dove Kate Winslet sancisce un epico sodalizio cine-sentimentale, ripreso dieci anni dopo col meno pluripremiato (11 statuette per la cronostoria del transatlantico più renumerativo della storia del cinema) Revolutionary Road, con la “mano felice” di Sam Mendes che, analogalmente al fortunato American Beauty, cerca di dare una risposta adeguata al quesito lasciato aperto da Cameron, sondando con amarezza le difficoltà di una coppia “troppo importante”. Di riuscito richiamo, rimangono il “sospeso” Prova a prendermi, firmato da un insolito Steven Spielberg, in coppia con un Tom Hanks più in sintonia con i ritmi tipici del regista e lo storico classico, tratto dalla trilogia di Dumas, La Maschera di Ferro, nei panni del gemello di Re Lugi XIV, tenuto nascosto alle spalle del mondano fratello sovrano e liberato dai ripresi e inediti tre moschettieri, con il guascone Gabriel Byrne nei panni di D’Artagnan. Martin Scorsese lo ha diretto a più riprese, cominciando con Gangs of New York (2002), il capolavoro mancato del regista, in una sterile storia cucita sullo spaccato storico di un’America prossima alla guerra Civile, comprimario Daniel Day Lewis nei panni di Bill il Macellaio, padre adottivo del giovane DiCaprio, di cornice alla storia. Segue  The Aviator (2004, Golden Globe come miglior attore), biografia sceneggiata sulla vita del magnate, produttore (regista di due film) e costruttore di aerei (proprietario della TWA), Howard Hughes, per proseguire con  The Departhed – il bene e il male, nuova incursione del regista sulla malavita organizzata, graniticamente fossilizzata con un Jack Nicholson forse troppo prosaico, per finire con  Shutter Island, una sorta di redenzione sulle estreme condizioni a cui vengono sottoposti i detenuti, riversando sul ruolo di DiCaprio le angosce già esplorate da Eastwood in Changeling. Riuscito dramma fantasy-politico diretto da Christopher Nolan (il papà dell’intera trilogia dell’ultimo Batman), con Inception (Ellen Page  e Gordon Levitt da spalla), interessante tessitura psicologica ad opera degli effetti speciali, sulla manipolazione  celebrale, già avvalorata nell’83 da Douglas Trumbull con Breinstorm – generazione elettronica. Ad un soffio dall’Oscar per J. Edgar, diretto da Eastwood, sulle tracce del biopic più controverso sulla vita del fondatore dell’F.B.I., Edgar Hoover. Una carriera decisamente di tutto rispetto, per un giovane quarantènne che si può permettere il lusso di raggelare i propri fuochi di successo, con l’incursione western estrema di un Quentin Tarantino sempre in cerca di prodezze da Oscar, vedi l’ultimo Django Unchained.

P. A. Vannucci   

martedì 7 maggio 2013

DiCinema: la nuova Hollywood


Un viaggio nello star system mondiale, per conoscere gli attori e i registi  che hanno rinnovato l’ultima generazione di miti in celluloide

Quando la rude virilità si sposa con il sentimentalismo, il volto volitivo di uno dei machi della nuova mecca Hollywoodiana, nel talento di Bruce Willis.
  

Duri a morire... è proprio il caso di dirlo, quando il cinema americano è  sempre  stato avido di protagonisti in grado di sostenere un non facile fardello di credibilità, suddivisa nel clichè assoldato dai ruoli e la stessa tempra dell’attore. Chi si è cimentato in una simile impresa, dai celebrati Robert Mitchum, maschera quasi dandy di un machismo ben arbitrato, passando da I forzati della gloria (The Story of G. I. Joe), il caposaldo di un cinema documentaristico nella propria assoluta devozione, al compendio devoluto nel Sangue sulla Luna (Vento di Terre Selvagge), dove la metamorfosi umana del potagonista segue una redenzione quasi prosaica del duro da intenditori, possiamo resettare l’antagonismo caratterizzato da un Yul Brynner, che facilmente poteva passare da ruoli di comprimaria cattiveria al classico sentimentale, vedi i più rappresentativi  Agli ordini del Fuhrer e al servizio di Sua Maestà, per deliziare i palpiti femminili con il tradizionalismo espresso dal sempreverde Anastasia. Bruce Willis (Walter all’anagrafe, classe ’55) è senza dubbio il più alto esponente di un cinema adrenalinico con ampi crediti da kolossal commerciali.  Di controversi natali (è nato in una base militare tedesca, da padre meccanico e madre casalinga), dopo un college d’Arte Drammatica interrotto per seguire la propria indole artistica, la solita gavetta di mestieri umili (dal barista al camionista) lo porta ad affrontare le prime esperienze professionali, passando dalla profetica sostituzione in un musical a scapito di Ed Harris, a cui si susseguono provvidenziali partecipazioni e occasioni mancate (una parte “glissata”al Cercasi Susan disperatamente di Madonna), per approdare, da vero protagonista, alla serie televisiva Moonlighting, fortunata saga giallo-romantica, trasmessa dal 1985-89 al fianco di Cybill Shepherd, mentre la commedia di Blake Edwards lo raccoglie ancora fresco di programmazione per le analoghe performance di  Appuntamento al buio (1987), rocambolesca soap rosa al fianco di Kim Basinger, e Intrigo a Hollywood. La vera performance che marchierà la tempra di Willis arriva con la regia di John McTiernan, nel Trappola di Cristallo (Die Hard), apparentemente un innocuo rifacimento dell’originale Inferno di Cristallo, firmato da Guillermin, per diventare una inedita trilogia fine a stessa, arrivata sino al capitolo odierno con l’epitaffio “Un buon giorno per morire”, siglato John Moore. Robert Zemeckis lo riabilita alla commedia con tanto di effetti speciali ereditati dalle fatiche spielberghiane, nel suo La Morte ti fa bella, mentre Quentin Tarantino non può che approfittare del proprio taglio di attore, per non assecondarlo in Pulp Fiction. Uno dei primi registi ad immolarlo in una inedita dimensione data al cinema di fine secolo (siamo nel 1997) è Luc Besson, con una piccola gemma di fantasy che mette in ombra il capolavoro di Scott e Lang (rispettivamente Blade Runner e Metropolis), ne Il Quinto elemento. Una moderna e urbana visione del futuro, con una Milla Jovovich, barocca e sensuale icona femminile (vestita da Jean Paul Gaultier) all’altezza di un cinema francese che ha saputo ammaliare Hollywood. Analogo è il più introspettivo dramma ritratto da Terry Gilliam, L’Esercito delle 12 Scimmie, con un Brad Pitt all’altezza dei ranghi. Il ciclone Armageddon, pilotato dal Re Mida Michael Bay,  lo consacra definitivamente attore di culto, in una miscela di citazioni, tessute su una sceneggiatura che vuole uscire dai margini del disaster movie, per desistere dall’essere semplice film da blockbuster. Considerando la parentesi privata di Planet Hollywood (non di meno il matrimonio con l’attrice Demi Moore), la catena di ristoranti per celebrity voluta insieme a Stallone e Schwarzenegger, con i quali gira la serie di film I Mercenari  (tra camei e protagonismi di convenienza), la punta di diamante del fumetto d’autore, Frank Miller (insieme ai registi Robert Rodriguez e Quentin Tarantino), lo immortala nel bianco e nero “rossosangue” di Sin City, cult della graphic novel moderna. Tema che incoraggia e motiva il regista Jon M. Chu a definire un ponte degno dell’attore con il culto dei comics G.I. Joe, nell’omonimo “La Vendetta”, ristabilendo quel vincolo naturale che, già nel film di William A. Wellman (girato in contemporanea con il secondo conflitto bellico), ha sempre stabilito il legame di appartenenza ad una categoria di uomini che cadono, si rialzano e sopravviveranno per sempre.

Paolo Vannucci                              


lunedì 8 aprile 2013

BIANCA COME IL LATTE, ROSSA COME IL SANGUE... e si gira!



Dal successo del romanzo d’esordio di Alessandro D’Avenia, il film diretto da Giacomo Campiotti al seguito del “cinemoccia” italiano

Ritornano Leo & Beatrice, novelli Romeo & Giulietta revisionati dal professore liceale D’Avenia, per deliziare il genere adolescenziale iniziato da Federico Moccia.
  
“Formula giusta non si cambia”, sembra suggerire la nuova commedia italiana rivolta ai giovanissimi, arrivando persino a prendere in prestito volti e atmosfere che sfiorano il plagio dei diritti d’autore. Tanto nessuno se ne accorge, almeno così si augurano i produttori di un cinema italiano che ha trovato una strada battuta dalla fiction televisiva dalla quale nessuno vuole recedere, e ne sa qualcosa la giovane Aurora Ruffino, oggi Silvia, al fianco di Filippo Scicchitano, ex Scialla comprimario di Fabrizio Bentivoglio, immersi in quella voglia di crescere che non arriva mai... e quando arriva è ormai troppo tardi. L’importante è cogliere quell’attimo, viverlo e colorarlo meglio che si può, complice l’avidità di chi l’adolescenza l’ha già vissuta, meglio se è anche un professore di lettere ancora troppo giovane per smettere di guardare il mondo con gli occhi di un sognatore. Il professore è svelato, dietro i riccioli ribelli e ossigenati di un Alessandro D’Avenia che ha saputo calarsi nel ruolo di scrittore, con un corso di sceneggiatura e la capacità di riadattare la propria esperienza di giovane professore di un liceo qualunque, al servizio di quella fantasia intrisa di filosofia e poetica che, forse, “rompe” soltanto un pochino, ma sempre quel tanto che basta per farci essere sempre migliori. La storia la conosciamo tutti, almeno per chi il libro, da cui è tratto il film, lo ha divorato. Leo (Scicchitano), sedicenne immerso nel suo problematico mondo di studente, con l’amico Niko (Romolo Guerreri) compagno di vita e di calcetto. Poi c’è Silvia (Ruffino), seduta al banco di scuola e innamorata persa di quell’incosciente che pensa sempre a Beatrice (Gaia Weiss), bella e destinata a morire, tra quei capelli rossi che svaniscono tra le lenzuola bianche di un ospedale. Nomi importanti, che sembrano emergere dalle pagine del libro di letteratura del Sognatore (Luca Argentero) che ammonisce di congiuntivi e prosa le incertezze dei propri studenti. Una storia come tante, ma che riesce a dare vita ad un film carino e convincente, proprio come i colori che lo devono caratterizzare, il Bianco e il Rosso, appunto. Una regia riposta in Giacomo Campiotti, che ha saputo cogliere il meglio dei suoi recenti predecessori, ripescando Questo piccolo e grande Amore di Riccardo Donna, sulle note della celebre canzone di Claudio Baglioni, in quel valzer di colore e musica architettata ad arte, per saper essere cinema che può ancora valere il prezzo di un biglietto. Le note della canzone dei Modà, Se si potesse non morire, riesce a convincere quel scetticismo quanto basta, coreografando un videoclip che merita il successo di un film che vuole rimandare sempre l’attenzione al libro da cui è stato tratto. Merito di quel giovane professore di Lettere, cha a forza di sognare è riuscito a trovare la propria strada. Complimenti...           

Paolo Vannucci

giovedì 28 marzo 2013

IL CACCIATORE DI GIGANTI: il ritorno di Jack e il fagiolo magico


Bryan Singer dirige Nicholas Hoult, nel reboot ufficiale della celebre fiaba popolare inglese, con un cast d’eccezione tra i prodigi in 3D

Ritornano le imprese narrate da Benjamin Tabart e Joseph Jacobs, nel restyling diretto dal “papà” degli X-Men, Bryan Singer.   

“Ucci, ucci sento odor di cristianucci”.  Lo ha esclamato il Bryan Singer che ha resuscitato il fumetto di Siegel & Shuster nel mantello di Kal-El (Superman returns) e il prequel della dinastia degli X-Men, in attesa dell’imminente seguito del giovane gruppo capitanato da McAvoy. Se la fortuna del regista è legata alle gesta di eroi di carta (e qui si parla di una delle fiabe più popolari, tramandate dalla cultura inglese e importata dalla voracità statunitense), allora ci troviamo al cospetto di una delle più belle e meritate trasposizioni “computerartigianali” che farebbero invidia persino a zio Walt (Disney), quando nel 1947 si cimentò voce e disegni nel quarto lungometraggio d’animazione “di gruppo” (il nono di serie) distribuito dalla RKO, deliziandoci con un Topolino, Pippo e Paperino alle prese con la proverbiale scalata alle spalle del pacioso gigante (Bongo e i tre avventurieri), frutto miracoloso della crescita del germoglio leguminoso più promettente che si possa sperare. Se l’ilarità da sempre tramandata sin dalla prima pubblicazione The History of Jack and the Bean-Stalk (stampato da Benjamin Tabart), è sempre stata la chiave di lettura che è la madre delle favole folkloristiche di ogni tempo, Nicholas Hoult è praticamente perfetto per immergersi nel mondo fantasy popolato da sortilegi e magie, quasi un promettente e aspirante stregone in quel di Merlino (impossibile non fare riferimento alla fortunata serie televisiva omonima, trasmessa dalla BBC con Colin Morgan interprete, a cui lo scenografo Gavin Bocquet deve i propri meriti), nei panni analoghi di un timorato Jack che si trova costretto a difenedere le proprie terre dal Mondo dei Giganti, risvegliati, irritati e cocciuti nel reclamare la legittima podestà del proprio regno. Che di Leggenda sia, leggenda sia fatta... anche se questi “stralunati bamboccioni” di cattivo sembrano aver ben poca fattezza, confidando nella propria proverbiale indole primitiva, confrontandosi nell’umanità contrapposta dalla nobile casta ridimensionata dalle vesti regali di Re Brahmwell (uno Ian McShane ormai abituato ad amorfiche trasfigurazioni, da quando Rupert Sanders lo ha immolato a nano nel suo Biancaneve e il cacciatore), per essere affiancato da Stanley Tucci (altro cardine d’eccezione, dopo il circense showman televisivo di Hunger Games), solo per fare breccia nel cuore della principessa Isabelle (Eleanor Tomlinson), senza tralasciare Ewan McGregor (Elmont) e Raine McCormack nelle rappresentative recriminazioni da gigante. Gli ingredienti ci sono proprio tutti, per non deludere tante aspettative, mentre per ora possiamo solo remunerare l’ultima impresa cinematografica risalente a dieci anni fa, diretta da Brian Henson, con un Matthew Modine in chiave dickensiana, per ristabilire ordine nelle dispute genetiche controllate con etica noncuranza. Che un fagiolo possa destare tanta attenzione, questo lo staremo proprio a vedere...        

Paolo Vannucci   

mercoledì 13 marzo 2013

CARLO VERDONE: LA CASA SOPRA I PORTICI... “il film più importante della mia vita”



Uno dei ritratti più intimisti e celebrativi del regista e attore Carlo Verdone, tra le pagine della sua biografia, intrisa di ricordi e devozione ad una famiglia del cinema italiano

La vita dell’attore, raccontata con la voce dei propri sentimenti, dedicato al padre Mario e la madre Rossana, ai fratelli... e a quella casa in via Lungotevere. 



Una casa paterna, in via Lungotevere dei Vallati 2, avvolta in quella spogliata malinconia tipica dell’attore romano che tutti conoscono, attraverso i film e i personaggi che lo hanno fatto diventare il regista comico che ha saputo raccontare l’italiano borghese, popolare e  “fraccicone”, proprio come il grande Albertone Sordi nazionale, che poteva spiare dalla finestra di casa sua, sin da ragazzino, prima di diventare il padre putativo cinematografico che tutti abbiamo apprezzato ne In viaggio con papà.  Lui è Carlo Verdone, romano verace e fiero di esserlo, con quell’ umiltà tipica dei propri personaggi,  maschera dell’italiano medio degli ultimi 50 anni  di Belpaese, attraverso la maniacale pignoleria di Furio, la stralunata ingenuità da bamboccione di Mimmo,  al fianco di Lella Fabrizi (insieme hanno girato Bianco, Rosso e Verdone e Acqua e Sapone), i capisaldi della propria comicità, scaturiti dal primo contenitore del moderno varietà televisivo di Enzo Trapani, Non Stop, nel palinsesto televisivo di Rai 2 del ’78.  Il Verdone che non lo ha mai abbandonato, sin dal pionieristico centauro su due ruote visto in Troppo forte, scritto e interpretato insieme a Sergio Leone, personaggio ripreso circa dieci anni dopo nel Gallo cedrone, girato nel ’98... coatto al punto giusto, proprio come i neosposi di Viaggi di Nozze, complice la fedelissima Claudia Gerini, nel monito de “lo famo strano” , voluta anche nel precedente Sono pazzo di Iris Blond, musicista nel nome di quella passione per la musica che non lo ha mai abbandonato, sin da quando ascoltava i 78 giri in vinile della madre Rossana, comprati con i soldi dati da zio Gastone (“I dischi non vanno conservati con le copertine, ma devono essere sistemati in pila l’uno sopra l’altro... che stronzata colossale!”), mentre col tempo, nelle pareti della sua stanza, ci appendeva i poster dei Pink Floyd, dei Beatles e di Hendrix... a cui ha dedicato un altro frammento della propria personalità, nei panni di Bernardo Arbusti, critico musicale ipernevrotico e con la sindrome dell’analista nel Maledetto il giorno che t’ho incontrato,  al fianco di Margherita Buy, sceneggiato con un io narrante che ricalca fedelmente l’introspezione soggettiva dell’attore, molto simile al libro odierno. Una vita di ricordi, di amori e di amicizie, tra il primo trauma subito per la perdita del nonno materno Aldo (“aprivo la mano e lui vi posava i due dobloni, poi mi dava un’affettuosa carezza prima che fuggissi a mangiare quei buonissimi cioccolatini”), alla conoscenza sui banchi di scuola di un giovanissimo Christian De Sica (il suo personale “Grande Freddo” con Compagni di Scuola), corteggiatore di una tredicenne Silvia, sorella dell’attore, passato sotto il severo permesso di papà Mario (“è soltanto un pallonaro”), per poter ufficialmente frequentare la donna che sarebbe diventata la moglie di oggi (sua è la dedica di Io e mia Sorella, al fianco di Ornella Muti). Oggi, quella casa paterna la guarda dal di fuori, vuota di tutto ciò che un tempo è stata la loro famiglia, “lontana, per certi versi estranea”, come una foto del suo volto, “giovane, con i capelli leggermente lunghi, ignaro del futuro che lo attendeva”.   

Paolo Vannucci