giovedì 28 marzo 2013

IL CACCIATORE DI GIGANTI: il ritorno di Jack e il fagiolo magico


Bryan Singer dirige Nicholas Hoult, nel reboot ufficiale della celebre fiaba popolare inglese, con un cast d’eccezione tra i prodigi in 3D

Ritornano le imprese narrate da Benjamin Tabart e Joseph Jacobs, nel restyling diretto dal “papà” degli X-Men, Bryan Singer.   

“Ucci, ucci sento odor di cristianucci”.  Lo ha esclamato il Bryan Singer che ha resuscitato il fumetto di Siegel & Shuster nel mantello di Kal-El (Superman returns) e il prequel della dinastia degli X-Men, in attesa dell’imminente seguito del giovane gruppo capitanato da McAvoy. Se la fortuna del regista è legata alle gesta di eroi di carta (e qui si parla di una delle fiabe più popolari, tramandate dalla cultura inglese e importata dalla voracità statunitense), allora ci troviamo al cospetto di una delle più belle e meritate trasposizioni “computerartigianali” che farebbero invidia persino a zio Walt (Disney), quando nel 1947 si cimentò voce e disegni nel quarto lungometraggio d’animazione “di gruppo” (il nono di serie) distribuito dalla RKO, deliziandoci con un Topolino, Pippo e Paperino alle prese con la proverbiale scalata alle spalle del pacioso gigante (Bongo e i tre avventurieri), frutto miracoloso della crescita del germoglio leguminoso più promettente che si possa sperare. Se l’ilarità da sempre tramandata sin dalla prima pubblicazione The History of Jack and the Bean-Stalk (stampato da Benjamin Tabart), è sempre stata la chiave di lettura che è la madre delle favole folkloristiche di ogni tempo, Nicholas Hoult è praticamente perfetto per immergersi nel mondo fantasy popolato da sortilegi e magie, quasi un promettente e aspirante stregone in quel di Merlino (impossibile non fare riferimento alla fortunata serie televisiva omonima, trasmessa dalla BBC con Colin Morgan interprete, a cui lo scenografo Gavin Bocquet deve i propri meriti), nei panni analoghi di un timorato Jack che si trova costretto a difenedere le proprie terre dal Mondo dei Giganti, risvegliati, irritati e cocciuti nel reclamare la legittima podestà del proprio regno. Che di Leggenda sia, leggenda sia fatta... anche se questi “stralunati bamboccioni” di cattivo sembrano aver ben poca fattezza, confidando nella propria proverbiale indole primitiva, confrontandosi nell’umanità contrapposta dalla nobile casta ridimensionata dalle vesti regali di Re Brahmwell (uno Ian McShane ormai abituato ad amorfiche trasfigurazioni, da quando Rupert Sanders lo ha immolato a nano nel suo Biancaneve e il cacciatore), per essere affiancato da Stanley Tucci (altro cardine d’eccezione, dopo il circense showman televisivo di Hunger Games), solo per fare breccia nel cuore della principessa Isabelle (Eleanor Tomlinson), senza tralasciare Ewan McGregor (Elmont) e Raine McCormack nelle rappresentative recriminazioni da gigante. Gli ingredienti ci sono proprio tutti, per non deludere tante aspettative, mentre per ora possiamo solo remunerare l’ultima impresa cinematografica risalente a dieci anni fa, diretta da Brian Henson, con un Matthew Modine in chiave dickensiana, per ristabilire ordine nelle dispute genetiche controllate con etica noncuranza. Che un fagiolo possa destare tanta attenzione, questo lo staremo proprio a vedere...        

Paolo Vannucci   

mercoledì 13 marzo 2013

CARLO VERDONE: LA CASA SOPRA I PORTICI... “il film più importante della mia vita”



Uno dei ritratti più intimisti e celebrativi del regista e attore Carlo Verdone, tra le pagine della sua biografia, intrisa di ricordi e devozione ad una famiglia del cinema italiano

La vita dell’attore, raccontata con la voce dei propri sentimenti, dedicato al padre Mario e la madre Rossana, ai fratelli... e a quella casa in via Lungotevere. 



Una casa paterna, in via Lungotevere dei Vallati 2, avvolta in quella spogliata malinconia tipica dell’attore romano che tutti conoscono, attraverso i film e i personaggi che lo hanno fatto diventare il regista comico che ha saputo raccontare l’italiano borghese, popolare e  “fraccicone”, proprio come il grande Albertone Sordi nazionale, che poteva spiare dalla finestra di casa sua, sin da ragazzino, prima di diventare il padre putativo cinematografico che tutti abbiamo apprezzato ne In viaggio con papà.  Lui è Carlo Verdone, romano verace e fiero di esserlo, con quell’ umiltà tipica dei propri personaggi,  maschera dell’italiano medio degli ultimi 50 anni  di Belpaese, attraverso la maniacale pignoleria di Furio, la stralunata ingenuità da bamboccione di Mimmo,  al fianco di Lella Fabrizi (insieme hanno girato Bianco, Rosso e Verdone e Acqua e Sapone), i capisaldi della propria comicità, scaturiti dal primo contenitore del moderno varietà televisivo di Enzo Trapani, Non Stop, nel palinsesto televisivo di Rai 2 del ’78.  Il Verdone che non lo ha mai abbandonato, sin dal pionieristico centauro su due ruote visto in Troppo forte, scritto e interpretato insieme a Sergio Leone, personaggio ripreso circa dieci anni dopo nel Gallo cedrone, girato nel ’98... coatto al punto giusto, proprio come i neosposi di Viaggi di Nozze, complice la fedelissima Claudia Gerini, nel monito de “lo famo strano” , voluta anche nel precedente Sono pazzo di Iris Blond, musicista nel nome di quella passione per la musica che non lo ha mai abbandonato, sin da quando ascoltava i 78 giri in vinile della madre Rossana, comprati con i soldi dati da zio Gastone (“I dischi non vanno conservati con le copertine, ma devono essere sistemati in pila l’uno sopra l’altro... che stronzata colossale!”), mentre col tempo, nelle pareti della sua stanza, ci appendeva i poster dei Pink Floyd, dei Beatles e di Hendrix... a cui ha dedicato un altro frammento della propria personalità, nei panni di Bernardo Arbusti, critico musicale ipernevrotico e con la sindrome dell’analista nel Maledetto il giorno che t’ho incontrato,  al fianco di Margherita Buy, sceneggiato con un io narrante che ricalca fedelmente l’introspezione soggettiva dell’attore, molto simile al libro odierno. Una vita di ricordi, di amori e di amicizie, tra il primo trauma subito per la perdita del nonno materno Aldo (“aprivo la mano e lui vi posava i due dobloni, poi mi dava un’affettuosa carezza prima che fuggissi a mangiare quei buonissimi cioccolatini”), alla conoscenza sui banchi di scuola di un giovanissimo Christian De Sica (il suo personale “Grande Freddo” con Compagni di Scuola), corteggiatore di una tredicenne Silvia, sorella dell’attore, passato sotto il severo permesso di papà Mario (“è soltanto un pallonaro”), per poter ufficialmente frequentare la donna che sarebbe diventata la moglie di oggi (sua è la dedica di Io e mia Sorella, al fianco di Ornella Muti). Oggi, quella casa paterna la guarda dal di fuori, vuota di tutto ciò che un tempo è stata la loro famiglia, “lontana, per certi versi estranea”, come una foto del suo volto, “giovane, con i capelli leggermente lunghi, ignaro del futuro che lo attendeva”.   

Paolo Vannucci 

mercoledì 6 marzo 2013

Mamma mia... IL GRANDE E POTENTE Oz!


Dopo Alice in Wonderland, Sam Raimi e James Franco all’appello in casa Disney per il prequel del romanzo di L. Frank Baum

Effetti speciali e atmosfere “prese in prestito” dal cinema di Gilliam e Barton, per una  delle favole fantasy più celebrative della letteratura di Baum, nel Il Meraviglioso Mago di Oz.   

Mamma mia!... non vi preoccupate, non stiamo parlando del musical diretto da Phyllida Lloyd (si proprio quello, con una Meryl Streep che duettava con le pirotecniche canzoni degli Abba) e nemmeno della “recente” versione voluta dal Re del pop Michael Jackson, con una virginale Diana Ross alle prese  con mattoni gialli e uomini di pezza (I’m Magic / The Wiz), perdipiù diretta da Sidney Lumet. Stiamo parlando di un riassaggio disneyano ad opera d’arte, “purtroppo” preceduto da un recente viaggio colorato da Tim Burton, impreziosito da un Cappellaio d’eccezione, nella chioma arancio di Johnny Depp e uno Stregatto (che più stregatto non si può) nelle spirali della computergrafica in 3D. Facciamo un passo indietro, cominciando dal pionieristico Barone diretto in primis da George Méliès, quel Munchausen illustrato a fine ottocento e remixato da un Terry Gilliam, vestito dai Monty Python e condito in salsa Lewis Carroll. Penso che ci si possa accontentare di tanta magistrale cinematografia dai presupposti letterari. Ma, ovviamente,  non per la Disney, che ha pensato bene di assumere Sam Raimi, trascinando nella magica tela anche James Franco, meravigliosamente mago nei panni di Oscar Diggs, intrepido illusionista che abbandona il mondo reale (un circo nella polverosa Kansas) per trovarsi scaraventato in mongolfiera, nella città di Oz. Se pensare di essere grande può essere impresa di non poco conto, a rammentarlo ci pensano tre ammalianti streghe che diffidano il saccente mago agli occhi del popolo, e per questo compito sono state investite di poteri le conturbanti Mila Kunis (svezzata dall’orsacchiotto Ted, per il ruolo di Theodora), Michelle Williams (Glinda e il doppio ruolo della proverbiale compagna Annie) e Rachel Weisz (in mummifiche riesumazioni da Evanora), solo per farlo diventare umanamente un Mago migliore. Se Victor Fleming aveva dato il meglio di se con una Judy Garland in treccine e grembiulino, abbracciando un leone senza coraggio (Bert Lahr), un uomo di latta senza cuore (Jack Haley), uno spaventapasseri senza cervello (Ray Bolger), per un mago che non è quello che sembra... allora possiamo toglierci tanto di cappello, al cospetto di un ennesimo prequel sotto il libero arbitrio degli autori Mitchell Kapner e David Lindsay-Abaire, tratto ovviamente dai 13 racconti di L. Frank Baum, autore anche di tre cortometraggi girati dal 1913 al 14, considerando anche una prima bobina del 1910.  Se la meraviglia non è un’opinione, possiamo solo immergerci in questa “originale” scenografia di Robert Stromberg, dove gli effetti speciali devoti al 3D assorbono l’espressionismo tedesco, chiave di lettura che legava le opere di G. Dorè e lo stesso Lewis Carroll, diventando il virtuosismo grafico che può “vertiginosamente” strabiliare nella buffoneria esorbitante in cui Terry Gilliam ci aveva introdotto. Le architetture metropolitane nebulizzate in colorate aurore, già decantate nella celeberrima “Over the Rainbow” premiata con l’Oscar nel ’39, assumono un valore di ineguagliabile potere evocativo, non potendo non citare l’analogo Parnassus – L’uomo che non poteva ingannare il diavolo, sempre diretto da Gilliam nel 2009, in quel valzer “agrodolce” diventato la celebrazione postuma di Heath Ledger, nei ruoli cameo affidati ai “sostituti d’eccezione” Johnny Depp, Jude Law e Colin Farrell. Allora... non è tutto come può sembrare?  Forse...       

Paolo Vannucci