venerdì 13 marzo 2015

LA “SUITE FRANCESE” DI MICHELLE WILLIAMS


SUITE FRANCESE

Dalla tragedia della seconda guerra mondiale, il romanzo postumo di Irène Némirovsky rieditato dal regista Saul Dibb, con una memorabile Michelle Williams tra gli orrori dell’Olocausto

Prova d’autore di prim’ordine, con una Kristin Scott Thomas dalle grandi aspettative.  
  
Un romanzo che ha avuto una lunga gestazione da parte della stessa scrittrice, Irène Némirovsky, nei due libri scritti febbrilmente nei mesi che precedettero il suo arresto e la deportazione ad Auschwitz; Tempesta in Giugno (che narra la fuga dei parigini all’arrivo dell’occupazione tedesca) e Dolce,  passionale narrazione del destino di una “Sposa di guerra” (la Williams) con un ufficiale tedesco (Matthias Schoenaerts). Tutta la storia si snoda secondo un intreccio di ferventi passioni nate dal conflitto sociale che li sconvolge, dal ricco banchiere al giovane prete, lo scrittore vanitoso e il giovane ribelle che si vuole arruolare al fronte ma che trova conforto tra le braccia di una donna di facili costumi. E’ un romanzo “vivo e sentito”, dove si mescolano tutti i sentimenti tipici di un periodo storico che ha messo a dura prova la moralità degli uomini e delle donne. Il cinismo, la meschinità, l’eroismo, l’amore e la pietà. “La cosa più importante, qui, e la più interessante” scriveva la Némirovsky due giorni prima di essere arrestata (morta nel ‘42 durante la prigionia), “è che gli eventi storici, rivoluzionari ecc. sono appena sfiorati, mentre viene investigata la vita quotidiana, affettiva, e soprattutto la commedia che questa mette in scena”. Kristin Scott Thomas dona un’ennesima grande interpretazione, con quel tocco di vero teatro che ha potuto sfoggiare nel recente Nowhere boy, mentre Sam Riley sembra voler dissociare l’esperienza favolostica di Maleficent da un dramma storico che si può solo riscontrare nel celebre manoscritto di Anna Frank, dove la stessa Irène annotava in un diario l’evoluzione stessa di quel triste romanzo che l’ha vista premiata postuma dai giurati del Prix Renaudot. Un film per non dimenticare, diretto da Saul Dibb, in cui gli equilibri dei sentimenti possono solo diventare lo specchio infrangibile di una grande storia d’amore e di guerra, quella che ogni uomo porta dentro di se e che può solo essere raccontata con i rigori dell’anima.        
                  
Paolo Vannucci   

martedì 10 marzo 2015

CIO’ CHE INFERNO NON E’


CIO' CHE INFERNO NON E': Alessandro D'Avenia

Terzo libro dello scrittore siciliano, nel viaggio intimo di una Palermo vissuta nelle sue aspre contraddizioni, attraverso gli occhi del giovane Federico e padre Pino Puglisi

Alessandro D’Avenia racconta la propria adolescenza in un omaggio ad una Sicilia che non sà dimenticare.

“Dove sei tu che puoi cucirmi l’anima silenziosamente? Ragazza piena di luce, puoi tu rammendare un ragazzo fatto di vento? Io cerco il tuo nome, benchè tu non l’abbia” 
Federico è fatto di benchè... diciassette anni colorati da una poesia che lo fa sentire sicuro in quel mondo scolastico rappresentato da quel liceo costruito sulle parole del Petrarca, di Dante e di tutti quei poeti che lo fanno sentire utile, in un mondo ancora incerto ma che ha un porto sicuro che è la sua famiglia, i suoi genitori e il fratello Manfredi...
“I maschi risolvono così le vertenze: è una cosa che le donne non capiranno mai. Senza mio fratello sarei soltanto un’ipotesi di maschio”
E’ per questo che Federico si ritrova in un campetto di calcio malmesso, in quella parte di città che tutti chiamano Brancaccio, frequentato da ragazzi così diversi da lui, con una rabbia interiore che non conosce ma che identifica con quella testardaggine che ha sempre associato alla voglia di scoprire la vita, come i suoi poeti dannati che declamano amore e maledivivere... oppure quelle letture giovanili che si devono leggere per non essere nessuno. Come dice il suo “3P”, il professore di religione padre Pino Puglisi, quell’uomo che Federico scopre di giorno in giorno, portandolo ad avvicinarsi a quel mondo fatto di nomi nuovi... Francesco, Maria, Dario, Serena e Totò... uniti da un pallone che vogliono calciare alto nel cielo, oltre le nuvole... oltre il Cacciatore, ‘u Turco, Madre Natura. Lui, arbitro di una partita molto più grande della sua età, che gli procura un labbro rotto e una bicletta rubata. Ma Federico non vuole rinunciare a quel prete che gli ha fatto conoscere una realtà che sino a quel momento poteva essere solo quell’ostinazione che ha sempre conosciuto come dignità, molto più matura dei cartoni animati giapponesi che guarda alla televisione con suo fratello. Per questa nuova asprezza ha rinunciato al mese in Inghilterra, dimostrando a suo padre di essere cresciuto... almeno quel tanto che basta per essere responsabili delle proprie azioni, proprio come vuole quell’altro padre, il prof di religione. Lui le scatole le rompe... si consuma le nocche sugli usci di quella burocrazia che sembra oscurata da quel male che tutti chiamano Cosa Nostra.  Ma Federico ha imparato la più importante delle lezioni... “perchè il solo lievito per un cambiamento possibile è nascosto tra le mani di chi apre orizzonti dove il destino prevederebbe violenza e desolazione”.
“L’inferno non esiste. E se esiste è vuoto. Dicono. Vivono forse in quartieri con giardini e scuole . Ignorano. L’Inferno sono gli enormi palazzi di cemento, alveari screpolati e abbandonati dalla bellezza, che fanno di cemento l’anima di chi li abita. L’Inferno si annida nei sotterranei di questi palazzi stipati di polvere bianca tagliata alla meglio e carne umana in saldo. L’nferno è fame mai soddisfatta di pane e parole. Inferno è un bambino sfregiato da fuori verso dentro, dalla pelle fino al cuore. Inferno è il lamento degli agnelli accerchiati dai lupi. Inferno è il silenzio degli agnelli sopravvissuti.
Ciò che inferno non è”   

PaoloVannucci

giovedì 5 marzo 2015

CENERENTOLA... e la sua scarpetta magica



CINDERELLA: LILY JAMES

Kenneth Branagh a dirigere la trasposizione di uno dei classici Disney più amati dai piccini, con Lily James nelle fuligginose vesti di Cenerentola

Topini, matrigna, sorellastre e Fatina con la proverbiale Zucca, per il restyling più atteso di un classico Disney mai dimenticato.

“I sogni son desideri chiusi in fondo al cuor” cantava la voce narrante di uno dei lungometraggi Disney più cari ai piccoli, quando ancora gli studios di Zio Walt rappresentavano quell’alcova di stupore e magia che con l’animazione erano capaci di trasportare sogni per renderli credibili e senza tempo. Era il 1950, Bambi era la prova di un successo tutto in mano agli artigiani del disegno, e la tecnica del Live Action era quella meraviglia che oggi chiamiamo computer grafica. Helene Stanley rendeva reale quel corpo graziato di una fanciulla piegata a lavare pavimenti, sotto gli occhi crudeli di una matrigna perfida e senza scrupoli, capace di rinnegare ogni spiraglio di felicità a una Cenerentola succube delle perfide sorellastre Anastasia e Genoveffa.  Gli unici amici e compagni di quelle tristi giornate erano i fedeli topini Gas e Giac, ignari di poter assitere a quel prodigio che porterà la nostra dolce fanciulla alla corte del principe, con tanto di Zucca trasformata in carrozza e destrieri bianchi, ad opera di un sortilegio che la renderà protagonista sino al fatidico rintocco della mezzanotte... poi tutto ritornerà come prima. La favola è sempre la stessa, in punta di scarpetta di cristallo, grazie a quella fata madrina che oggi risponde al nome di Helena Bonham Carter, che regala alla nostra Cinderella (Lily James) la possibilità di trasformare in realtà un sogno per sempre legato al principe azzurro Richard Madden, mentre la perfida matrigna Cate Blanchett cerca sino all’ultimo di impalmare una delle due figliastre, rispettivamente Holliday Grainger e Sophie McShera, laddove la scarpetta non ne vuol sapere di calzare. Una produzione firmata dal regista Kenneth Branagh, con gli effetti speciali firmati da Charlie Graovac, Nick Joscylene e  Roderick Pulis, mentre le scenografie portano il magico tocco dell’italiano Dante Ferretti, nell’allestire quel palazzo reale recuperato dal Royal Naval College e lo stesso castello di Windsor, complici i Pinwood Studios dove tutto può essere ricreato. Che la favola abbia inizio...   

Paolo Vannucci

lunedì 2 marzo 2015

Andrea De Carlo... e il suo “CUORE PRIMITIVO”



ANDREA DE CARLO: "CUORE PRIMITIVO"

18° romanzo dello scrittore milanese, nelle nuove prospettive di esplorazione delle sue tecniche di seduzione

Mara Abbiati, Craig Nolan e Ivo Zanovelli sono i nomi dei protagonisti di un eclettico triangolo che esplora l’istinto delle emozioni.

“Non hanno idea di come interpretare i reciproci respiri, i reciproci suoni inarticolati. Non hanno nessuna routine rassicurante, nessuna sequenza familiare di gesti da anticipare dall’inizio alla fine. L’inizio chissà dov’è, la fine è impossibile intravederla; sanno così poco uno dell’altra, o di come arrivarci. Ma poi arrivare a cosa? Sono davvero impegnati nello stesso identico gioco? O in una gara affannosa in cui uno dei due deve prevalere sull’altro? A lei sembra che niente corrisponda a quello che sa, eppure prova per lui un senso di familiarità inspiegabile, sconvolgente, esaltante. La sovraccoperta con i gigli ricamati si arriccia a onde sotto la sua schiena ogni volta che si inarca, le lenzuola si increspano, i cuscini si spostano, cadono sul pavimento. Lei registra questi particolari senza pensarci davvero; è troppo presa nella compenetrazione affannosa di intenzioni consistenze forme, nell’invasione desiderata contrastata facilitata.”  Mara Abbiati è la sensualità di una donna descritta senza soffermarsi sull’età che la contraddistingue, come per tutti e tre i protagonisti. Una scultrice, artista che si compiace della sua energica vitalità che riversa nelle sue forme scolpite nel tufo, pietra fragile e consistente allo stesso tempo. Una relazione con Craig Nolan, marito affettuoso e complice di quel loro matrimonio che si basa sull’accettare quelle infedeltà che sembrano naturali, ovvie nella loro inconsistenza. Un antropologo, scrittore, ricercatore, vittima di un incidente in quella casa di Canciale, sull’appennino ligure. Poi arriva Ivo Zanovelli, un costruttore senza inibizioni, oscuro nella sua spavalderia costruita dalle esperienze della vita. A lui hanno affidato il compito di ristrutturare la loro abitazione, dopo quell’incidente sul tetto sprofondato dal peso del marito. “Ivo la guarda: ci sono mille domande nel suo sguardo, e nessuna risposta. Lei gli strappa di mano il casco, se lo mette in testa, chiude la fibbia, monta sul sedile, poggia i piedi sulle pedaline. Incredibilmente non ha più nessun pensiero-esploratore nella testa, che vada avanti a perlustrare affannosamente il terreno prima di lei; non ha più nessuna riflessione, nessuna considerazione. E’ occupata quasi esclusivamente dalle sensazioni, dalla velocità con cui le batte il cuore. Lui si rimette gli occhiali, allunga una mano dietro di sè per assicurarsi che lei sia ben sistemata; gira la manopola del gas, fa ruggire il motore. Lei gli stringe forte le braccia intorno, gli si preme contro. La Bonneville prende velocità, su per la strada a curve che sale verso il passo appenninico e da lì arriva a un bivio e da lì ad altri bivi per altre strade  che si diramano verso nord est ovest sud, in tutte le direzioni del mondo.”   
Oggi l’obiettivo fotografico capace di impressionare emozioni ed immagini è diventato digitale, trasformando un linguaggio modernizzato dall’uso costante dei media contemporanei, e Andrea De Carlo si dimostra capace di assorbire status e logica senza privarsi di quella caratteristica tipica dei suoi romanzi che si chiama prospettiva dei sentimenti.   
    
Paolo Vannucci